E’ iniziata la campagna promossa da Unione Popolare per la raccolta firme finalizzata alla presentazione di una legge di iniziativa popolare che fissi a 10 euro il salario minimo orario.
Si tratta di una battaglia politica (e “di civiltà”) assolutamente indispensabile se si considera l’attuale situazione del lavoro nel nostro paese, l’unico dell’intera area europea ad avere visto le retribuzioni medie in calo negli ultimi trent’anni.
Se si prende in considerazione il periodo 1990-2020, quello che parte da cambiamenti storici fondamentali come la caduta del muro di Berlino e la creazione dell’Europa di Maastricht, con la nascita in Italia della seconda Repubblica, si può constatare nel nostro continente una crescita generalizzata delle retribuzioni medie da lavoro dipendente. In particolare in paesi, per molti versi simili al nostro per storia recente, come Germania e Francia l’incremento salariale è stato rispettivamente del 33,70% e del 31,10%. In pratica una crescita di un terzo rispetto al passato. Incredibilmente anche un paese come la Grecia, malgrado le vergognose e terribili sanzioni subite dalla “troika” a causa del suo debito pubblico, ha visto un incremento retributivo pari al 30,50%. In coda alla lista stanno i Paesi Bassi col 15,50% e il Portogallo col 13,70%. Ed infine, fanalino di coda (Italia esclusa) è la Spagna, che tuttavia col suo pur modesto incremento del 6,20% può vantare un vantaggio di quasi dieci punti percentuali rispetto al nostro paese, dove il compenso medio del lavoro dipendente è addirittura calato del 2,90%.
I numeri come si può vedere sono impietosi. Quasi da vera e propria catastrofe civile, in una situazione, che in assenza di una adeguata opposizione sociale, è destinata a peggiorare a causa delle politiche dell’attuale governo delle destre che ha dichiarato senza mezzi termini, in occasione della presentazione alcuni mesi fa del decreto lavoro, che quella della “moderazione salariale” è una sua fondamentale bandiera.
Avviare un processo in controtendenza non sarà facile, e mi permetto di dire che lo stesso salario minimo orario non sarà sufficiente a cambiare lo stato delle cose, se l’intera battaglia salariale non sarà vista come parte di una più generale lotta centrata sul diritto universale ad un reddito minimo garantito, che potrebbe anche sostanziarsi con la riproposizione (nelle lotte di piazza e nelle possibili proposte legislative) di qualcosa di simile del vergognosamente abrogato “reddito di cittadinanza” (magari in versione rivista e migliorata).
Per capire meglio il nostro ragionamento partiamo da una semplice considerazione. In molte situazioni del meridione depresso (e non solo), spesso le possibilità occupazionali più facilmente reperibili riguardano il piccolo commercio e la ristorazione nei centri urbani e i lavori stagionali nelle campagne, o anche i lavori di cura personale di badanti e babysitter. Si tratta di prestazioni erogate quasi sempre in nero e sottopagate, con retribuzioni mensili mediamente attestate tra 600 e 700 euro, e con compensi orari calcolabili tra i quattro e i cinque euro, con punte negative anche al di sotto dei due euro.
In situazioni di questo tipo, la fragilità contrattuale dei lavoratori è tale che la stessa esistenza di una norma che in teoria assicura il diritto ad una retribuzione minima oraria, se non supportata dalla certezza di un reddito a prescindere dalla schiavitù “lavoro obbligato”, potrebbe innescare meccanismi di reazione padronale, che se non adeguatamente contrastati, finirebbero paradossalmente per aumentare la precarietà del lavoro, le condizioni di subordinazione in totale assenza di diritti, e infine la distanza tra il lavoro garantito di pochi e il lavoro non garantito di molti.
Il diritto ad un lavoro dignitoso, liberamente scelto e adeguatamente retribuito, resterà un’utopia se non sarà eliminato il ricatto della povertà, che rende precaria e non esigibile qualunque possibile conquista parziale del mondo del lavoro.
Diritto al salario minimo garantito e diritto al reddito minimo garantito sono le due facce della stessa medaglia. L’una non può vivere ed avere senso se non c’è l’altra. E’ questo il difficile compito a cui siamo chiamati. E’ questo l’impervio cammino che Unione Popolare è chiamata a percorrere se vuole avere un futuro credibile dal punto di vista di classe.