La fibra killer continua a uccidere: le stime riferite al periodo 2010-2016 parlano di 4.400 persone che sono morte in Italia per tumori correlati.
Chi inquina paga? Non sempre. Perché far pagare i costi ambientali ai soggetti che li causano non è così semplice.
Prendiamo il caso dell’amianto. Nonostante trent’anni di divieti, la messa al bando in Italia risale al 1992, l’amianto ancora da bonificare resta un grosso un problema di salute pubblica. Una tragedia che va ben oltre l’Eternit di Casale Monferrato. Il nostro Paese, in effetti, è stato il primo consumatore di amianto a livello europeo e il secondo maggior produttore mondiale dopo l’Unione sovietica. Dal dopoguerra, ha prodotto oltre tre milioni di tonnellate di amianto grezzo e ne ha importate quasi due milioni. E non sono gli unici primati. Dal 1907 al 1990, è stata attiva in Italia la più grande miniera di asbesto d’Europa, l’Amiantifera di Balangero, la cui produzione è arrivata a toccare le 160.000 tonnellate annue.
La strage silenziosa
Scrive l’Istituto Superiore di Sanità che “in Italia si stimano, per il periodo 2010-2016, circa 4.400 morti l’anno” tra chi ha respirato le sue fibre, mille volte più sottili di un capello. Mesotelioma, asbestosi, tumore del polmone, della laringe e dell’ovaio. Sono malattie che fanno paura e sono tutte correlate all’esposizione all’amianto e alle sue polveri, indistruttibili ed eterne.
“Il picco massimo di casi attesi in Italia, correlato alla produzione di amianto e manufatti contenenti amianto avvenuta nel nostro Paese tra gli anni ‘70 e ‘90 e al periodo di latenza delle malattie asbesto-correlate, è atteso tra il 2015 e il 2025“. È l’allarme lanciato dall’INAIL in un report del 2013. L’unica prevenzione è eliminare la fonte, cioè bonificare i “siti d’amianto”. Perché negli ambienti di vita e di lavoro, la fibra killer rappresenta ancora oggi una realtà diffusa.
A dirlo non sono “i soliti ambientalisti” ma è ancora l’INAIL che lo mette nero su bianco nella sua Mappatura delle discariche che accettano RCA, rifiuti contenenti amianto: “L’amianto è riconosciuto come causa del 50% dei casi di tumori occupazionali”, scrive l’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro. E tutto questo senza contare le scuole: l’Ona, l’Osservatorio Nazionale Amianto, ha registrato 2.292 edifici scolastici dove ci sarebbero ancora tracce di eternit.
Bonifiche a rilento e dataset dimenticat
Di più. Secondo gli ultimi dati del Mase, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, al 2021 risultano censiti circa 118.000 siti ancora interessati dalla presenza di amianto, 7.918 siti bonificati, e 4.304 parzialmente bonificati.
Vale dire che più di 105.000 aspettano ancora la messa in sicurezza. Un’enormità.
A questi si aggiungono le aree più contaminate d’Italia, e cioè i 10 Sin, i Siti di interesse nazionale coinvolti in attività produttive ed estrattive di amianto dove le bonifiche sono in corso, a carico dello stato: Casale Monferrato (AL, AT e VC), Balangero (TO), Broni (PV), Emarese (AO), Officina Grande Riparazione ETR di Bologna, Napoli Bagnoli, Tito (PZ), Bari Fibronit, Priolo (SR) e Biancavilla (CT).
Senza contare i cosiddetti “siti orfani”, cioè le aree contaminate per le quali “il responsabile dell’inquinamento non è individuabile o non provvede agli adempimenti previsti, o non provvede il proprietario del sito né altro soggetto interessato”. E qui subentra un problema di trasparenza per cui non abbiamo in mano i numeri: i dati dei 271 siti in elenco, individuati dalle Regioni per ottenere i finanziamenti, sono accorpati e non si riesce ad andare più a fondo. Perchè sul sito del Mase, alla voce “Amianto e siti orfani”, si apre una pagina bianca.
Dove va a finire l’amianto
Dove va a finire l’amianto bonificato? Non in discarica. O meglio, non in una discarica qualunque. Sono 19, in Italia, gli impianti autorizzati ad accettare RCA che nel 2021 si sono smazzati 416 mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto, per il 98% derivato da materiali da costruzione. Lo dice l’ultimo Rapporto Rifiuti Speciali dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che poi precisa che altre “25 mila tonnellate sono state avviate a deposito preliminare e 8 mila esportate”. La maggior parte nella salina di Stetten, in Germania, ma ci aiutano a liberarcene anche Spagna e Francia.
La sentenza Eternit bis
Dopo oltre 7 ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise di Novara ha emesso una sentenza storica nei confronti dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny condannandolo, l’8 giugno scorso, a 12 anni di reclusione e al pagamento di 50 milioni di euro di risarcimento al Comune di Casale, 30 milioni allo Stato italiano e centinaia di milioni ai familiari delle vittime. L’uomo era accusato dell’omicidio volontario, con dolo eventuale, di 392 persone – 63 lavoratori dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato, di cui è stato l’ultimo proprietario, e 329 monferrini morti a causa dell’amianto.
La sentenza di primo grado, che ha derubricato il reato da omicidio volontario a omicidio colposo aggravato, è arrivata dopo 42 udienze. Due anni in cui il percorso della giustizia è ricominciato daccapo, dopo che la Cassazione, nel 2013, aveva cancellato la condanna di Schmidheiny per intervenuta prescrizione. Il magnate svizzero, in Appello, era stato condannato a 18 anni per disastro doloso ambientale e al pagamento di 89 milioni di euro di indennizzi.
Sentenza di primo grado, dicevamo, con la prescrizione sempre in agguato. Mentre l’amianto non si prescrive. Resta lì, indistruttibile ed eterno. Un agente cancerogeno senza un livello soglia, per cui basta una singola fibra per rischiare di ammalarsi.
Dovrebbero tenerlo in conto i governi che rincorrono i giganti di cemento: le bonifiche, quelle sì, sarebbero una grande opera.