In una casa del rigoglioso quartiere alto di Santiago, Nanci accompagna un signore pensionato. In Venezuela ha fatto l’infermiera fino a quando non iniziarono a scarseggiare materiali basici come cotone, alcool, flebo e cibo salutare, inficiando le capacità dei professionisti di assistere adeguatamente i pazienti. I trasporti pubblici non funzionavano a causa della carenza di petrolio, e quindi si sforzava di camminare a piedi. Quando non ricevette più lo stipendio con regolarità e la vita tornò a essere precaria, decise che non c’era altra soluzione se non quella di lasciare il paese. Con i suoi due figli decise di imbarcarsi in una traversata di 10 giorni via terra per raggiungere una destinazione 4000 kilometri a sud: il Cile, dove i suoi familiari le assicuravano che si vivesse meglio.
Ma c’era la pandemia di mezzo e la frontiera era chiusa. Una volta attraversato il territorio cileno, si auto-denunciò per richiedere rifugio umanitario. Sono due anni che aspetta la risposta del Servizio Nazionale di Migrazione. La storia di Nanci, e altre mille simili, è la stessa di innumerevoli persone.
Controllare, arrestare ed espellere sono parole che, una volta arrivata in Cile, Nanci cominciò ad ascoltare con maggior insistenza. I migranti venivano collegati alla delinquenza, e ciò suscitava in lei insicurezza e sfiducia in settori della società cilena nei confronti della presenza di migranti. Negli ultimi cinque mesi di quest’anno, sono state avanzate delle proposte da entrambi i lati dello spettro politico per applicare misure che evidenziano la tendenza a criminalizzare i migranti.
A fine febbraio, il governo del presidente Gabriel Boric, che in campagna elettorale promise di umanizzare la situazione dei migranti, firmò un decreto per uno spiegamento delle forze armate per controllare le affollate frontiere del nord confinanti con Bolivia e Perù, dalle quali entrano migliaia di migranti. La legge ottenne l’approvazione del Congresso dopo alcune negoziazioni con i legislatori di destra, tramite le quali l’esecutivo si impegnò a creare gruppi speciali di polizia e militari per controllare la frontiera.
Il Cile non possiede un ente dedicato al controllo migratorio, equivalente all’agenzia statunitense Customs and Border Protection. Si tratta di un organico della polizia investigativa che controlla e timbra i documenti d’entrata. I controlli d’identità e dello status migratorio erano praticamente inesistenti in Cile fino al 2018 e non sono mai stati frequenti.
Un’amnistia che permise di regolarizzare la loro presenza nel paese fu concessa nel 1997 a circa 45000 persone e nel 2007 a circa 50000 persone. Le dure misure utilizzate per controllare la popolazione migrante segnano un cambio radicale.
A metà marzo, quando la Camera dei Deputati approvò con voto unanime la modifica di una legge per facilitare l’espulsione amministrativa degli stranieri, la ministra dell’interno Carolina Tohá disse “L’ingresso in Cile per cercare nuove opportunità non apre la porta a chi viene per delinquere…”
Questo ritratto di migliaia di migranti arrivati in Cile, che riflette la presunzione secondo la quale criminali e migranti siano la stessa cosa, si è diffuso durante la seconda amministrazione del presidente Sebastián Piñera. Le espressioni reiterate da parte del presidente, del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Pubblica e da altre autorità sul “rimettere nelle nostre mani il nostro Paese”, “far fronte ai delinquenti stranieri” e sul fare dei distinguo tra “migranti buoni e cattivi” sono state ampiamente diffuse dai mezzi di comunicazione. Successivamente, quando si chiusero le frontiere a causa della pandemia, si consolidò l’idea che gli stranieri portassero il contagio della malattia.
Il clima di ostilità emerse dopo che un grande numero di migranti, di prevalenza venezuelana, si diresse in Cile. A febbraio del 2019, il presidente Piñera salì su un palco nel paese colombiano di confine Cúcuta, esortando i migranti ad attraversare il continente verso il sud, per “appoggiare la lotta del popolo venezuelano per il recupero della propria democrazia”.
In un attimo il benvenuto suscitò un’antipatia non solo discorsiva ma, effettivamente, influenzò l’amministrazione della politica migratoria: i consolati cileni smisero di sbrigare le pratiche dei visti in Venezuela e Haiti, il riconoscimento della condizione di rifugiato fu inesistente, le pratiche burocratiche per ottenere il permesso di residenza si allungarono terribilmente e si costruirono dei fossati profondi un metro lungo le frontiere con la Bolivia. Inoltre, vennero rifiutati anche i “Visti di Responsabilità Democratica”, una misura introdotta dal governo Piñera per facilitare l’entrata dei venezuelani. In un solo giorno, l’11 novembre 2020, il ministero delle Relazioni Estere rifiutò circa 90 000 richieste di tali visti, tramite l’invio di una mail di massa. Il governo lo attribuì a un “incidente informatico”. Alcuni specialisti si chiedono se l’intenzionalità umana abbia avuto un ruolo nell’incidente. Un mese dopo, l’ingresso di migranti venezuelani attraverso vie non abilitate aumentò a dismisura.
La campagna elettorale per le presidenziali di Gabriel Boric alzò le aspettative verso una politica migratoria umanitaria con un approccio basato sui diritti, che sarebbe stata affrontata “da un punto di vista integrale”, secondo il programma esposto dall’allora candidato. Al contrario, si è visto un inasprimento dei controlli senza affrontare la situazione delle migliaia di persone le cui richieste rimangono burocraticamente in sospeso, lasciandoli vulnerabili allo sfruttamento lavorativo, abitativo e in altri aspetti della vita quotidiana.
La sociologa dell’Università di Tarapacá e specialista in temi migratori Carolina Stefoni, che appoggiò l’elezione di Boric, riconosce che “è difficile continuare a difenderlo” poiché non solo continua a utilizzare misure attuate dal governo precedente, ma ha fatto cose che sotto Piñera non si erano viste. La sociologa sostiene che ciò che la preoccupa è la proposta di trattenere un migrante fino a che la sua identità non venga accertata. “Questo è molto, molto grave. È un passo indietro in materia di diritti. In tutte le normative internazionali c’è un principio che afferma che l’immigrazione irregolare non è un crimine. In questo modo la si sta trasformando in un crimine”.
Per Eduardo Cardoza, immigrato uruguaiano da 30 anni in Cile e dirigente del Movimento Acción Migrante, che lotta per i diritti dei migranti, “è un’inerzia dell’approccio che dal 2018 per quattro anni veniva praticato sotto il governo di Piñera. Non c’è stato un cambio del punto di vista e si procede con un approccio di sicurezza nazionale”. Il fatto che sia un governo progressista sia un governo di destra adottino politiche migratorie simili, non solo in Cile ma a livello globale, lo attribuisce a quanto segue: “Una politica basata sui diritti implica un approccio alla sicurezza umana diverso rispetto all’approccio della sicurezza nazionale che abbiamo nella regione. E ciò che sta dietro è la costruzione e l’uso della migrazione per scopi politici come fattore che genera paura”.
Approfondendo l’elemento dell’utilizzo, la sociologa Stefoni ritiene che lo si deve in parte ai processi sociali e di globalizzazione dell’economia che generano notevoli disuguaglianze. “È la logica del capro espiatorio che paga i costi della globalizzazione. Qualcuno deve avere la colpa di tutto ciò. Ed ecco che appare il migrante. Ci fanno credere che rubano il lavoro, che occupano tutti i servizi pubblici, che le scuole siano sovraffollate perché ci sono bambini migranti e che i servizi sanitari non riescano a curarli. La regressione dei processi delle politiche pubbliche sta creando povertà. Ma ciò dipende dalle decisioni politiche prese, non dall’immigrazione”.
Va sottolineato che l’inasprimento delle politiche migratorie non colpisce tutti i migranti in misura uguale. I migranti europei, per esempio, non sono obbligati ad avere passaporto né visto. Stefoni afferma che “la tendenza globale è quella di impedire la mobilità dei gruppi che non sono considerati graditi. Si stanno costruendo muri, sia fisici che simbolici per fermare un certo tipo di migrazione, quella che si considera povera, criminosa e inferiore a causa della razza”.
L’avvocato Tomás Greene tocca con mano l’impatto della politica migratoria ogni giorno grazie al suo lavoro come professionista in diritto migratorio. Lo vede nell’angoscia e nella vulnerabilità dovuta alle richieste che rimangono per mesi e anni senza risposta. “Credo che il governo precedente sia stato molto aggressivo. Durante tutto il governo precedente siamo stati in una guerra costante per la difesa dei diritti umani e delle persone migranti. Oggi, dice Greene, la vedo come un’inazione, un’omissione da parte del governo nei confronti, per esempio, dei gruppi vulnerabili, esclusi i bambini a cui stanno concedendo il visto. Ma mi colpisce che il governo non abbia pubblicizzato in nessun modo che i bambini potessero chiedere il visto. Fanno tutto in silenzio per quale motivo? Perché la destra non gli salti addosso e li critichi? Non so”.
Un altro esempio che Greene cita è il piano di registrazione annunciato dal governo, in base al quale, quando gli agenti dell’Ispettorato del Lavoro individuano persone che entrano attraverso frontiere non autorizzate, devono registrarle: prendere il loro nome, i loro dati e assegnare loro un numero di identità. Ma questo metodo non si è diffuso e l’avvocato ha avuto a che fare con casi di persone entrate insieme, di cui alcune registrate e altre no.
Greene è categorico nell’affermare che non attribuisce i ritardi e l’arbitrarietà a decisioni prese a discrezione dei funzionari, ma a politiche. “Sono allineamenti che provengono dall’autorità, dall’alto. Ma non so che senso abbia non fare nulla e lasciare le persone in un’irregolarità indefinita”.
In Sudamerica alcuni paesi hanno introdotto delle soluzioni che riconoscono le necessità urgenti dei migranti. L’Argentina applica il visto di Mercosur (del quale il Cile non fa parte) ai venezuelani per facilitare i processi di regolarizzazione e concedere una residenza temporanea che permette ai migranti di lavorare e di condurre una vita normale. La Colombia ha creato un procedimento di regolarizzazione che ha aiutato più di due milioni di persone. In Brasile si sono resi più flessibili i requisiti dei documenti per le persone di origine haitiana. Greene commenta: “credo che in situazioni straordinarie come quella che si sta vivendo in Venezuela, si possano adottare misure eccezionali o più flessibili”.
Costruire fossati e pattugliarli di soldati, dicono gli esperti, non serve per fermare le entrate irregolari. Il deserto di Atacama, che è vasto, è identico su entrambi i lati delle linee di demarcazione invisibili che le nazioni hanno tracciato per definire il proprio territorio. Se si impedisce alle persone di entrare da un lato, cercheranno altre entrate più pericolose, perché ciò che li spinge ad attraversare il continente è più forte.
Per effettuare un cambio di direzione della politica migratoria si richiede qualcosa di complesso: cambiare il modo di pensare. “Quando parliamo di ‘crisi migratoria’, cos’è ciò che è in crisi?”, si chiede Carolina Stefoni. “È un paese che riceve una valanga di gente? O è una situazione umana estremamente critica che la gente vuole lasciare? Credo si tratti del secondo caso. Sì, è così, la crisi coinvolge gli esseri umani che non hanno un sistema di protezione, non sanno dove vivere per sviluppare i propri progetti di vita. Quindi le soluzioni devono servire a proteggere e offrire delle opportunità reali di vita”.
Nel frattempo, Nanci continua ad aspettare. “Vivo in un limbo perché legalmente non esisto”. Ai legislatori e alle autorità cilene che l’accusano di essere una delinquente perché vive e lavora senza autorizzazione, lei risponde: “siamo genitori che lottano per un futuro migliore per i nostri figli. Mettetevi nei miei panni”.
di Maxine Lowy
Traduzione dallo spagnolo di Alessandra Mazzone. Revisione di Thomas Schmid.