Nell’indifferenza generale la crisi nel nord del Kosovo sta precipitando. Nelle tre città in cui sono ancora la maggioranza assoluta i serbi si sono scontrati con le forze di interposizione Nato perché vogliono impedire l’insediamento di sindaci del gruppo etnico albanese.
Quando il Kosovo faceva parte della Repubblica federale di Jugoslavia (di fatto la Serbia) il governo di Milosevic opprimeva i kosovari albanesi che erano minoranza e quando dopo l’intervento militare della NATO il Kosovo si è dichiarato indipendente, ora sono i serbi a essere in minoranza e a pagare il prezzo di questa condizione.
“La (tragica) esperienza storica – osserva Fabrizio Battistelli, Presidente di Archivio Disarmo – non sembra aver insegnato niente. Cambia l’ordinamento interno agli stati, cambiano i governi, cambiano gli equilibri etnici e nazionali senza che, contestualmente, vengano date garanzie alle minoranze nazionali e religiose. Così è successo nella ex Jugoslavia dal 1992 in poi, così in Kosovo nel 1999, così nel Donbass nel 2014”.
A livello locale i differenti gruppi etnici sono istigati da politici senza scrupoli a odiarsi ed aggredirsi, a livello internazionale le grandi potenze restano a guardare o appoggiano copertamente qualcuno. Al massimo, interpongono contingenti di peacekeeping come cuscinetto tra conflitti che nessuno vuole risolvere politicamente. I 3.800 militari del contingente Kfor fanno il loro dovere, a proprio rischio e pericolo (gli italiani hanno avuto 14 feriti). I grandi giornali fanno il tifo per l’uno o per l’altro contendente, non in base a criteri di prevenzione della violenza bensì in base alla lontananza/vicinanza alla “grande” politica dell’Est e dell’Ovest. Chi ci rimette è, come sempre la pace, cioè il benessere e il diritto delle popolazioni a vivere in dignità e in sicurezza.