Tra la strage di Steccato di Cutro e il naufragio del peschereccio affondato il 14 giugno scorso nello Ionio, 45 miglia a sud-ovest di Pilos, seppure nella diversità della dinamica degli eventi, ci sono elementi comuni che devono essere indagati a livello internazionale, ed a livello europeo. Prima che le autorità nazionali allontanino i testimoni e disperdano le prove della loro responsabilità, concentrando tutta l’attenzione generale sugli arresti dei presunti scafisti. A differenza di quanto finora avvenuto in Italia, quando in Grecia si tratta di indagare sulle attività di ricerca e salvataggio condotte da corpi militari, non si è mai riusciti ad accertare responsabilità istituzionali. Ma anche in Italia diventa sempre più difficile, come è confermato dalle udienze dibattimentali del processo Salvini a Palermo.
Intanto la grossa imbarcazione da dIporto che aveva trasferito nel porto di Kalamata i superstiti è stata fatta ripartire con l’allontanamento di importanti testimoni dei fatti. Rimane oscura la ragione per cui il barcone, proveniente da Tobruk e diretto in Italia, sia passato tanto vicino alle coste del Peloponneso. La rotta del peschereccio potrebbe spiegarsi con il fatto, noto da tempo, che in caso di imbarcazioni tanto grandi gli scafisti passano a qualche decina di miglia dalla costa greca, pur rimanendo in acque internazionali ben oltre il limite 12 miglia dalla costa, per abbandonare il comando dei barconi a qualche disperato e fuggire verso terra, in modo da farla franca con tutti i soldi che hanno incassato.
In entrambi i casi, con il passare delle ore, si riscontra uno scarto crescente tra le prime versioni ufficiali e quanto dichiarato dai superstiti, e oggi, nel caso di Cutro anche con i primi accertamenti da parte della magistratura inquirente. Uno scarto tra dichiarazioni ufficiali e realtà dei fatti che porta a dubitare fortemente della veridicità delle versioni fornite in Grecia dalla Guardia costiera e nel caso di Cutro dalla Guardia di Finanza, dalla Guardia costiera e dal Ministero dell’interno. Dai primi rilievi istruttori della Procura che sta indagando sulla strage del 26 febbraio sembra addirittura che almeno una delle motovedette che “venivano costrette al rientro” per il peggioramento delle condizioni meteo, in realtà non fosse mai uscita dal porto. Adesso non basterà più addossare tutte le responsabilità sugli scafisti, o sugli stessi naufraghi che avrebbero “rifiutato” i soccorsi o avrebbero nascosto la loro presenza. Stessa accusa rivolta dopo la strage di Steccato di Cutro, e ripresa oggi dalla guardia costiera greca per giustificare il mancato e, alla fine, tardivo intervento di soccorso. Come ha affermato Vincent Cochetel rappresentante dell’UNHCR per il Mediterraneo centrale, “this boat was unseaworthy & no matter what some people on board may have said, the notion of distress cannot be discussed.”. La nozione di distress, che impone un intervento immediato di salvataggio, in altri termini, non può essere oggetto di discussione tra naufraghi e soccorritori. Le persone vanno comunque messe in sicurezza, anche con il lancio di giubbetti salvagente, e trasbordate nel più breve tempo possibile. Come fanno le ONG, anche se vengono accusate di essere intervenute troppo presto, quando ancora le imbarcazioni sarebbero in “buone condizioni di navigabilità”. Magari con lo stesso sovraccarico che ha contribuito a produrre le ultime stragi.
Dai racconti dei superstiti sbarcati nel porto greco di Kalamata si è appresa la notizia che i naufraghi non avevano affatto respinto l’assistenza offerta dalla Guardia costiera greca, che anzi- secondo quanto dichiarato da alcuni sopravvissuti- aveva agganciato con una fune il peschereccio ed aveva tentato di allontanarlo dalle coste greche, forse verso la zona SAR maltese. Un video delle dichiarazioni dei superstiti, ripreso da una delegazione parlamentare greca, rende poco credibili future ritrattazioni, indotte magari dalla promessa di un trasferimento più rapido nei paesi del norderuopa, la vera meta di molti dei migranti salpati da Tobruk per raggiungere le coste italiane. Del resto, per la Guardia costiera greca è prassi ricorrente agganciare i barconi carichi di migranti nel mare Egeo e abbandonarli dopo averli trainati verso le coste turche. Solo che nello Ionio queste operazioni di rimorchio sono più complesse, le distanze maggiori e le probabilità di naufragio per lo sbandamento del barcone rimorchiato in condzioni di grave sovraccarico, diventano certezza. Secondo alcune fonti (ANSA) il naufragio sarebbe avvenuto a 60 miglia dalle coste greche, se ciò fosse vero, ancora più vicino al limite della zona SAR maltese. Anche se il traino fosse avvenuto verso le costre greche, si sarebbe comunque trattato di una scelta che avrebbe comunque comportato il naufragio di un peschereccio tanto carico. Su queste circostanze, che potrebbero avere determinato la morte di centinaia di persone, occorre una indagine indipendente. Ed una valutazione politica che vada oltre il procedimento penale. La prassi di affidare alle navi commerciali, che pure vanno coinvolte, attività di ricerca e soccorso, ritardando l’intervento degli assetti navali ed aerei militari, ha già prodotto troppe vittime.
Sia nel caso della strage di Cutro, che in occasione di quest’ultimo naufragio, i primi avvistamenti sono stati effettuati -alle ore 9,47 del 13 giugno– da assetti aerei impiegati nell’operazione Themis di Frontex, che hanno trasmesso gli allarmi al Centro di coordinamento internazionale, che ha poi avvertito i centri di coordinamento nazionali. Da qui avrebbero dovuto essere immediatamente avviate operazioni di ricerca e salvataggio, che invece sono partite con diverse ore di ritardo, attività coordinate dagli MRCC o dai JRCC (Centrali di coordinamento della Guardia costiera o Centri congiunti di ricerca e soccorso), che non sono frutto di “accordi” con i naufraghi che “consentono” di essere salvati, ma attività dovute dagli Stati, per adempiere gli obblighi di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali. Come l’Italia, anche la Grecia e Malta che si avvalgono di operazioni Frontex, e le inseriscono nelle loro attività di law enforcement (contrasto dell’immigrazione irregolare) in acque internazionali rientranti nella zona SAR (ricerca e salvataggio) di loro competenza, assumendosene la responsabilità operativa, sono tenute al rispetto del Regolamento europeo n.656 del 2014, Che rende vncolanti per tutti gli agenti statali gli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni di diritto internazionale del mare, richiamate dal Manuale IMO IAMSAR, e trasfuse, nel caso dell’Italia, nel Piano SAR nazionale del 2020.
Nel caso della strage di Steccato di Cutro appare singolare che Frontex abbia accreditato nel suo comunicato la prima versione dei fatti fornita dalla Guardia di finanza, secondo cui due motovedette sarebbero uscite in mare e poi si sarebbero trovate costrette a rientrare per le cattive condizioni meteo. Sembra invece che in quella notte le stesse motovedette sarebbero rimaste ancorate in porto. Un aspetto oscuro su cui sta indagando la magistratura italiana, ma di cui anche Frontex, se ha condiviso con un comunicato notizie false, dovrebbe rendere conto a livello europeo. Una ragione in più per una inchiesta a livello internazionale.