Da quelli, timorosi, su una spiaggia libica a quelli che lo hanno portato al gradino più alto di Sos Mediterranèe
“Quei cento metri, quegli ultimi cento metri, per raggiungere la nostra opzione di salvezza, sono stati i più lunghi di tutta la mia vita!”: Abdelfetah Mohamed e il suo viaggio. Strada lunga: nove anni senza porsi neanche il problema di che luogo raggiungere. “Cercavo soltanto… ‘un luogo sicuro’: non ho mai pensato al nome di una nazione, ma a uno spazio di pace”.
Il pensiero corre a Peppino Impastato e ai suoi ‘cento passi’: un tratto così breve tra male e bene, guerra e pace, ombra e luce, morte e vita.
I cento metri di Abdelfetah erano la distanza tra la vista della spiaggia e l’imbarcazione che lo avrebbe portato – forse – dall’altra parte del Mediterraneo: “Tu non sali!” è quello che talvolta dicono, per ragioni non sempre conosciute, a chi si affaccia su quel mare di contraddizioni: sappiamo bene che può essere salvezza o tomba.
Da poche ore Abdelfetah Mohamed è il nuovo presidente di Sos Mediterranée Italia, una delle Ong impegnate in mare – attraverso l’Ocean Viking – nel salvataggio di migranti in cerca di ‘un posto sicuro’. È il primo, almeno in Italia, che da ‘soccorso’ è diventato prima soccorritore e ora guida di un’associazione che salva vite in mare.
“Per me questa elezione è molto importante” ci dice incontrandolo a Taranto, dove ora vive “perché mi permette di dare un nome e un cognome al mio volto, sinora associato ad altri termini come ‘migrante’ o ‘rifugiato’. Oggi comincia un altro viaggio, è un altro passo: sono un cittadino. Significa anche questo, essere presidente di Sos Mediterranée Italia: hanno cominciato a riconoscerci come figure che possono giocare ruoli importanti nella società. Per me significa tanto e sono sicuro che questa mia elezione sarà motivo d’ispirazione per tanti giovani.”
Ho avuto l’onore di esserti accanto durante una tua toccante testimonianza in un incontro, organizzato all’Eirenefest – il festival del libro sulla pace e la nonviolenza -, intitolato ‘Diritto d’esilio’. Hai fatto riflettere tutti sul termine ‘migrante’, colui che migra, ma facevi notare come vi definissero migranti anche dopo dieci anni di cittadinanza italiana!
Una persona migra, viaggia, ma non può restare così tutta la vita, non può vivere tutta la vita da ‘migrante’: arriverà pure un momento in cui troverà casa. Io ho trovato casa qui in Italia, ma sono stato accompagnato sempre da quell’appellativo.
Forse è conveniente per alcuni essere così vaghi, ambigui, per non conoscere il tuo nome, la tua storia. Capisco che, dal punto di vista linguistico, il mio nome è difficile e per questo l’ho reso più semplice: Abdel. Mi piacerebbe che ora anche gli altri facessero dei passi verso di me, semplicemente imparando il mio vero nome e quello di tutti i ragazzi che sino a oggi sono ancora numeri.
Il termine ‘migrante’ fa erroneamente pensare solo alla traversata in mare e ai rischi che ne derivano
Spesso le persone credono che i nostri fratelli arrivati dal mare siano ‘nati’ migranti. Ho visto tanti rinascere nel momento in cui sono stati salvati, perché da allora inizia una nuova vita, ma dobbiamo sempre capire che prima della traversata queste persone avevano un’altra storia: non possiamo minimizzare il loro vissuto, il loro dolore, riducendo tutto a un imbarco e uno sbarco. Sono molto più di questo! È il primo passaggio per comprendere la questione immigrazione in Italia.
Parlaci della tua esperienza prima dell’imbarco
Prima di arrivare in Italia – come ti dicevo – ho viaggiato per nove anni. Ho sempre cercato un posto sicuro; quando uno esce da casa comincia a cercarne un’altra: la cerca nel cibo, negli odori, nelle piccole cose… anch’io ho fatto questa ricerca e continuo a farla.
Per questa e per tante altre ragioni, mi dispiace che la gente mi associ al fatto che sia stato un migrante, un rifugiato; quello che mi piace è invece che mi vedano come un valore aggiunto.
Qual è lo stereotipo che più ti infastidisce?
Non siamo qui per essere utili a qualcuno: non ho fatto quel viaggio per arricchire questa società. Ho fatto quel viaggio perché c’è un diritto internazionale che mi permette di chiedere la protezione internazionale. Ho avuto questo dallo Stato italiano e sono molto grato: mi ha permesso di avere una nuova vita.
Vivi a Taranto ora…
“Oh mamma! A me stava piacendo un sacco di non essere riconosciuto per strada… ora per ‘colpa’ tua sarò fermato a ogni incrocio!” ci dice ridendo. “Stavo benissimo nell’anonimato!”
In che cosa il tuo vissuto può connotare la presidenza in Sos Mediterranée?
Penso che il mio ruolo, a livello simbolico, sia davvero straordinario: è bellissimo immaginare che un rifugiato, che è stato salvato, poi diventi presidente di una Ong del soccorso in mare.
Questa è già una vittoria: per me, per la società, per Sos Mediterranée. Oggi siamo a questo livello. Il mio valore aggiunto è legato al fatto che ci sarà una nuova prospettiva per trovare soluzioni nell’affrontare questo problema, perché penso che siamo bloccati da anni a ripetere sempre le stesse cose.
C’è gente che pensa di dire tutto senza sapere nulla: non hanno mai vissuto la sofferenza di questi uomini, che non può essere descritta da un titolo di giornale. Dev’essere trasmessa da chi l’ha vissuta in prima persona. Questo sarà il mio ruolo: andrò a guardare le persone negli occhi, raccontando e dando un volto alle storie di chi ce l’ha fatta e di chi no, chiedendo a ognuno di prendersi le proprie responsabilità.