Mercoledì 7 giugno si terrà a Napoli, in una città sempre più stretta dalla morsa del turismo di massa, una manifestazione cittadina sul diritto all’abitare indetta da associazioni e movimenti sociali e civici: dalla rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistificazione), che ha promosso la manifestazione, al coordinamento napoletano dei beni comuni, fino a molte realtà associative del variegato universo dell’ambientalismo e dell’attivismo sociale. La manifestazione precede una kermesse organizzata dal Comune di Napoli che avrà come evento conclusivo il 13 giugno un incontro della cosiddetta “Alleanza Municipalista” sul tema della “emergenza abitativa”. L’Alleanza Municipalista è un fronte di dodici Comuni amministrati da giunte di centro-sinistra (PD, M5Stelle, coalizioni civiche, a seconda delle diverse configurazioni locali) che già nell’aprile scorso si era riunito a Bologna, avanzando una serie di proposte al governo nazionale per un rilancio delle politiche pubbliche per l’abitare.
Un’analoga manifestazione si è svolta a Padova il 2 giugno scorso sul tema “Abbiamo un problema grande come una casa”, cui hanno partecipato centinaia di persone, tra inquilini, studenti e abitanti di origine straniera. Anche Padova, come Napoli, è parte del cartello di Comuni che si riconoscono nell’Alleanza Municipalista. Nelle settimane scorse, i collettivi studenteschi hanno fatto proprio il tema del diritto alla casa, dopo il successo della “protesta delle tende” dello scorso mese di maggio, innescata dall’accampamento di una studentessa del Politecnico di Milano disperata per l’impossibilità di trovare un alloggio in una città, Milano, divenuta il simbolo della gentrification e dello sviluppo urbano elitario in Italia.
Il tema della regolamentazione degli affitti turistici è una delle questioni più calde oggi: dopo la pausa imposta dalla pandemia nel biennio 2020-21, dal 2022 le locazioni turistiche sono tornate a crescere vorticosamente in tutte le città, prosciugando il mercato ordinario degli affitti e dando una spinta ulteriore alla ripresa degli sfratti seguita al temporaneo blocco che si era ottenuto nei mesi dell’emergenza pandemica. Com’è noto, la bolla degli affitti turistici ha come principali vittime le comunità locali di residenti e la popolazione studentesca. Per residenti e studenti è ormai diventato impossibile trovare alloggi a prezzi abbordabili in quartieri che fino a oggi sono stati caratterizzati da una forte mescolanza di gruppi sociali e da una vivace densità abitativa. E diventa ormai difficilissimo anche trasferirsi in un’altra città diversa da quella propria, accettando lavori nel pubblico impiego o in altri settori dove stipendi e salari sono troppo bassi. La crisi abitativa si ripercuote sulle classi popolari, che proseguono un trend ormai pluridecennale di trasferimento forzato verso periferie sempre più lontane dai quartieri centrali, ma anche sul ceto medio, sempre più sofferente per le basse retribuzioni cui si aggiunge l’aumento precipitoso del costo della vita avutosi negli ultimi due anni a causa della crisi energetica internazionale.
Si è scritto qui nei giorni scorsi sulla necessità di ancorare la richiesta di politiche abitative inclusive a una critica dell’economia politica dello sviluppo urbano, come è stata definita. Molte delle amministrazioni che promuovono l’Alleanza Municipalista hanno portato avanti negli anni scorsi, e continuano a farlo oggi, un modello di sviluppo urbano che alimenta le diseguaglianze sociali e territoriali. Tale modello è basato sui dogmi, da un lato, del turismo come volano dell’economia e della conseguente spettacolarizzazione della vita urbana (grandi eventi, capitali della cultura ecc.) e, dall’altro, dell’attrazione di imprese ad alta conoscenza e della proposizione di distretti tecnologici come unica ricetta di politica attiva per lo sviluppo economico di città e aree urbane. Negli anni scorsi ci siamo dovuti sorbire la retorica dei fasti tecnologici imposta da progetti (finanziati con fondi pubblici) come lo Human Technopole a Milano e la Apple Academy a Napoli. Tuttavia, nessuna amministrazione in queste città ha dato evidenza – dati alla mano – dell’impatto positivo che questi progetti hanno sull’imprenditorialità locale dei territori circostanti.
Il modello di sviluppo economico urbano che ha dominato sino a oggi (e che continua a dominare gli interventi territoriali previsti nel PNRR) insegue il miraggio della tecnologia digitale come moltiplicatore del benessere sociale e dell’innovazione urbana. Tuttavia, continuando a inseguire il miraggio dello sviluppo tecnologico e dell’innovazione urbana da un lato si produce gentrification delle società urbane, dall’altro lato si sottraggono risorse alle comunità locali e si spazzano via le economie diffuse, radicate nei territori e nel tessuto sociale delle città e dei quartieri che le compongono. Le politiche abitative su cui insiste l’Alleanza di Comuni rischiano – nel migliore degli scenari – di intervenire sui sintomi della crisi urbana, ma non sulle cause a essi sottese. Sono necessarie politiche abitative inclusive, ma senza una chiara inversione di rotta nel modello economico di sviluppo urbano che si persegue tali politiche rischiano di rimanere simboliche, puramente palliative, e dunque di scarsa incidenza sulle condizioni materiali di vita della maggioranza delle persone.
Insieme al ripensamento del modello economico di sviluppo urbano, occorre riflettere sulle possibilità di convergenza tra Comuni e i movimenti sociali che oggi si battono per il diritto alla città e all’abitare. L’Alleanza di Comuni evidentemente muove dall’auspicio che la convergenza possa trovare un terreno ideale di partenza nella resistenza all’attuale maggioranza di governo, reazionaria sul piano dei diritti sociali e civili e retrograda su quello delle politiche economiche e territoriali. Una convergenza su questo terreno di resistenza può certamente darsi, ma di certo non è sufficiente nemmeno come punto di partenza per un incontro tra amministrazioni “progressiste” e movimenti sociali.
Per avere tale incontro, bisogna restituire senso e forza all’aggettivo “municipalista” che i Comuni hanno deciso di utilizzare nella loro alleanza sulle politiche abitative. Se ciò non avvenisse, l’uso di quest’aggettivo finirebbe con l’apparire come un mero espediente retorico, strumentale solo alla ricerca di consenso politico. Il movimento di città che negli anni scorsi si sono riconosciute a livello internazionale nell’idea municipalista si è distinto per gli spazi di democrazia diretta e decisionalità dal basso che ha accordato ai movimenti sociali, civici e popolari. Nonostante i rispettivi limiti, le recenti esperienze di Barcellona in Catalogna, di Rosario in Argentina, di Napoli nel Sud Italia – quelle forse più note e dibattute sul piano internazionale – sono state accomunate dalla convergenza istituzionale tra governi locali e movimenti sociali intorno al progetto di creare nuove istituzioni di decisione collettiva. Ed esperimenti simili che si richiamano all’idea municipalista della democrazia diretta e della decisionalità popolare – della democrazia “faccia a faccia”, come la definì il teorico ecologista Murray Bookchin nei suoi visionari scritti municipalisti (Bookchin, 1993) – si sono avute in forme embrionali o più o meno compiute in una miriade di piccoli, medi e grandi centri urbani sparsi in diversi continenti del mondo contemporaneo.
Tali “nuove istituzioni” di decisionalità collettiva possono funzionare da effettivi contropoteri nella dinamica quotidiana della politica locale (Hardt e Negri, 2018), alla scala di città e dei quartieri, garantendo l’autonomia e autodeterminazione dei movimenti sociali nel processo di riconoscimento istituzionale (Butler e Athanasiou, 2019). Così facendo, le nuove istituzioni municipaliste possono garantire che il ripensamento del modello di sviluppo urbano non sia affidato – nella migliore delle ipotesi – solo alle menti illuminate delle elites progressiste al governo delle città, ma sia l’esito di un più ampio processo di esercizio dell’intelligenza collettiva.