Domenica 7 maggio 2023: la giornata comincia con l’attesa del pullman che ci porterà a Dongo, organizzato dalla Camera del Lavoro di Como. Un altro, noleggiato dall’Anpi, ci segue a ruota. La strada del lago scorre abbastanza velocemente: il traffico del turismo non è ancora cominciato, è presto, anche se non proprio l’alba. Alle 9 circa siamo a Dongo; piazza Paracchini, dedicata a uno dei caduti della Resistenza in Alto Lario, è ancora semivuota; i nostalgici del passato regime non sono ancora arrivati; le camionette delle forze dell’ordine sì, e hanno già sostanzialmente diviso il territorio in due campi: il lungo lago per “loro”, la porzione di piazza antistante il Municipio, il Palazzo Manzi, a “noi”, in mezzo una ristretta terra di nessuno tra le transenne. Unico punto di passaggio un bar che ha un ingresso sul lungo lago e un altro verso la piazza.
Comincia così un mattino di ordinario antifascismo.
Ordinario, sì, perché non c’è, non ci dovrebbe essere, “eccezionalità” nell’essere qui a riaffermare i valori della Repubblica e della Costituzione nate dalla Liberazione. Quindi dalla Resistenza, quindi dall’Antifascismo. Non dovrebbe essere difficile da capire, e invece no, ogni anno ci tocca di doverlo ripetere a orecchie e menti sempre chiuse e, peggio, sempre meno disposte ad ascoltare. Dover ripetere per l’ennesima volta che la Costituzione è antifascista (persino alle massime cariche dello Stato che su quella Costituzione giurano) è sfibrante, così come è sfibrante dover ripetere al poliziotto in servizio di ordine pubblico che fascismo e antifascismo non sono due opinioni alternative sullo stesso piano, perché è proprio quello Stato che lui sta servendo ad affermare – nella sua legge fondamentale – che i due orizzonti sono inconciliabili e che quello fascista non può più avere spazio. (Giuro: il discorsetto al poliziotto l’ho fatto, mentre lui cercava di spingermi via – abbastanza gentilmente, si intende – per farmi tornare nella “nostra” porzione di piazza, mentre io volevo documentare con la macchina fotografica la cerimonia fascista…).
Basta una mattina di suoni, di canti, di discorsi (anche di urla, certo) per colmare l’abissale distanza tra l’ignoranza della storia e la consapevolezza della democrazia? Temo di no, ma questo non vuol dire che ogni anno questa consapevolezza e quell’ignoranza non vadano sottolineate, perché anche questo è il dovere della cittadinanza attiva: un dovere minimo, un dovere “ordinario”, appunto.
Ogni anno mi stupisco di come la cittadinanza di Dongo non brilli per la sua presenza in piazza Paracchini; amici e amiche, compagne e compagni donghesi non mancano, ma la maggioranza della “gente” non c’è… Dovrebbe esserci tutta, invece, a dimostrare che quell’evento tragico che il paese ha vissuto (una fucilazione non è mai una festa) lo si è capito nella sua fondamentale importanza di “fondazione” dei tempi nuovi, di una democrazia nuova, della vita nuova. Ogni anno penso che questo potrebbe (dovrebbe) essere il sentimento popolare. Ogni anno ci sforziamo di colmare un poco questa mancanza.
In piazza, infatti, ed è la cosa più bella, ci si sta con piacere, in modo semplice: ci si riconosce, ci si scambia opinioni, si ascolta musica (la partecipazione della Banda degli Ottoni, arrivata apposta da Milano, questa volta fa la differenza). Tutto questo è il ruolo della piazza (anche questo un ruolo popolare: lo si dovrebbe fare tutti i giorni, in realtà). È poco politico? Al contrario: la piazza (l’agorà) è il cuore della polis. Quindi si ascoltano i discorsi – diversi evidentemente, alcuni più efficaci e più pregnanti, tutti pertinenti -, si intessono relazioni, si costruisce socialità.
Dall’altra parte si è assistito a quasi niente. Quest’anno la cerimonia ha assunto un deliberato tono minore: solo quattro persone a far da coreografia, al posto della corona un mazzo di fiori legato (con fatica) sulla ringhiera che porta ancora i segni delle pallottole, niente rito del “presente”, niente saluti romani (per fortuna). Ecco, ha detto qualcuno, non è successo niente, basta lasciarli fare… l’antifascismo non serve più. E invece continua a servire, proprio nel momento in cui gli eredi di quella stessa ideologia (non molto emancipati) sono al governo: è evidente l’interesse a mantenere un legame col regime del passato e allo stesso tempo a non provocare troppo rumore.
L’antifascismo sta tutto nella consapevolezza che i principi della convivenza democratica non sono negoziabili, che i diritti sono fondamentali e non possono essere piegati all’interesse di nessun governo, di nessuna parte. Che nessun omaggio (nemmeno simbolico, nemmeno silenzioso) può essere portato agli esponenti di quel regime che aveva fatto della soppressione della democrazia e della negazione dei diritti la propria ragion d’essere. Non è una questione di numeri: in pochi o in tanti, in orbace o in doppio petto (la camicia nera, comunque, è di rigore), non è lecito che lo Stato democratico ammetta questo tipo di manifestazioni.
La piazza antifascista – allegra, colorata, rumorosa, anche un po’ arrabbiata, ci mancherebbe – sarà sempre lì a ricordarlo. Con un po’ di orgoglio, la piazza di Dongo merita di essere ricordata come uno dei luoghi in cui la Repubblica democratica è cominciata a nascere. Non bisogna dimenticarsene.