Condanniamo la decisione del Kosovo di forzare l’accesso agli edifici municipali nel Nord nonostante il nostro richiamo alla moderazione. Facciamo appello alle autorità del Kosovo di fare un passo indietro e procedere a una riduzione della tensione, nonché di coordinarsi strettamente con la EULEX e con la KFOR. Condanniamo inoltre gli attacchi contro la EULEX a Zvečan. Siamo altresì preoccupati dalla decisione della Serbia di alzare il livello di allerta delle proprie forze armate in prossimità del Kosovo e facciamo appello a tutte le parti per la massima moderazione, evitando, tra l’altro, qualsiasi retorica incendiaria”. Basterebbe questa Dichiarazione congiunta, insolitamente diretta ed esplicita, del Quintetto, vale a dire Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, che sono anche le principali forze impegnate nell’ambito della missione della NATO KFOR, per dare un’idea della drammaticità della situazione e della escalation di tensione che sta attraversando il Kosovo.
È dallo scorso 26 maggio, in occasione dell’insediamento delle nuove amministrazioni espresse dalle autorità albanesi del Kosovo nei comuni, a stragrande maggioranza serba, del Kosovo del Nord, vale a dire Kosovska Mitrovica, Zvečan, Leposavić e Zubin Potok, che la tensione ha iniziato a salire: centinaia di serbi, soprattutto impiegati delle amministrazioni locali, ma anche cittadini e cittadine comuni, si sono radunati agli ingressi degli edifici che ospitano le sedi delle amministrazioni locali, per impedire quella che viene letteralmente considerata una “presa” delle istituzioni municipali da parte delle autorità albanesi kosovare. Anche in questo caso, infatti, la contrapposizione tra le letture politiche della situazione non potrebbe essere più netta: da un lato, le autorità albanesi kosovare intente a scortare con un vasto dispiegamento di polizia l’ingresso dei nuovi sindaci e l’insediamento delle nuove, contestate e controverse, amministrazioni; dall’altro, i cittadini serbi del Kosovo intenti a impedire questa forzatura e prevenire quella che considerano una vera e propria imposizione.
Le origini di questa nuova contrapposizione vanno ricercate nelle modalità di svolgimento delle ultime elezioni amministrative tenute il 23 aprile scorso e boicottate dall’intera comunità serba del Kosovo, in considerazione non solo del clima di tensione, conseguente allo scontro diplomatico tra Belgrado e Prishtina e alla cosiddetta “controversia delle targhe”, ma anche della sostanziale inagibilità politica per i serbi del Kosovo, trattandosi, come dichiarato da Aleksandar Jablanović, uno dei dirigenti serbi a Leposavić, di «una circostanza in cui, quando dal 21 novembre i serbi non possono circolare liberamente con i loro veicoli nel nord del Kosovo per le nuove norme sulla immatricolazione con le nuove targhe, sarebbe assurdo pensare di tenere delle elezioni»; ciò essendo legato al fatto che, come spiegato agli organi di informazione da Aleksandar Arsenijević della iniziativa civica “Srpski opstanak” a Kosovska Mitrovica, «non ci sono le condizioni per indire elezioni. Al Nord non c’è la possibilità di organizzare una partita di calcio, figuriamoci un’elezione. Ascoltiamo la voce dei nostri cittadini, e i nostri cittadini hanno deciso che queste elezioni dovrebbero essere boicottate».
Queste, tra le altre testimonianze raccolte nell’autunno scorso, tornano oggi utili per capire il clima nel quale sono state celebrate queste elezioni e, a maggior ragione, per comprendere le cifre dei risultati delle elezioni nel Nord: a Leposavić, Lulzim Hetemi, di Vetëvendosje, è stato eletto sindaco con 100 voti; a Kosovska Mitrovica, Erden Atiq, ancora di Vetëvendosje, con 519 voti; a Zubin Potok, Izmir Zeqiri, del PDK (Partito Democratico del Kosovo), con 196 voti; a Zvečan, Ilir Peci, ancora del PDK, con 114 voti. Le stesse cerimonie di giuramento sono state celebrate ben distanti dai capoluoghi, e si sono tenute nei villaggi albanesi dell’entroterra del Nord: Lulzim Hetemi, ha prestato giuramento nell’ufficio locale del villaggio di Šaljska Bistrica; Izmir Zeqiri ha prestato giuramento nel villaggio di Čabra; Ilir Peci nel villaggio di Boljetin/Boletini.
Al di là della mera maggioranza numerica dei voti espressi, la cornice di legittimità di tali “sindaci” si situa tra un processo elettorale ampiamente compromesso e un esito elettorale visibilmente surreale. La stampa serba non ha mancato, ovviamente, di fare notare come, affermando l’intenzione di lavorare nell’interesse di tutte le comunità del Kosovo, questi stessi “sindaci” abbiano tuttavia prestato giuramento in albanese. Vivono oggi nel Nord del Kosovo oltre 50 mila serbi, che costituiscono oltre il 90% della popolazione dell’area, a fronte di una affluenza al voto, nelle scorse elezioni amministrative, addirittura inferiore al 4%. La metafora della “presa delle istituzioni” del Nord del Kosovo è ampiamente usata dalla stampa, mentre in una surreale dichiarazione ufficiale, all’indomani del voto, le autorità dell’autogoverno di Prishtina hanno affermato che «il governo sostiene pienamente le nuove amministrazioni nel loro lavoro al servizio di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna».
Sono i frutti avvelenati del nazionalismo e della contrapposizione etnopolitica, che si riversa non a caso anche sui tavoli della diplomazia. Nel vertice tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il capo dell’autogoverno del Kosovo, Albin Kurti, tenuto lo scorso 2 maggio nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea, non si sono fatti passi in avanti sui temi dello statuto e della costituzione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo, già concordata e approvata nei precedenti accordi del 2013 e del 2015 e ora rigettata dalle autorità kosovare perché «incompatibile con la Costituzione del Kosovo». Ad oggi, il Kosovo non è uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale: sono meno di novanta gli Stati con cui il Kosovo ha relazioni diplomatiche e circa cento quelli che ad oggi hanno riconosciuto l’indipendenza kosovara.