3 e 4 maggio 2023: due date tragicamente indelebili per la Serbia, caratterizzate da eventi la cui eco ha raggiunto la stampa internazionale.
Due omicidi di massa, a Belgrado prima e a Mladenovac poi, hanno sconvolto la popolazione e attivato una mobilitazione civica in tutto il paese, con una marcia contro la violenza partecipata da decine di migliaia di persone.
I fatti: tra diritto di cronaca e qualità dell’informazione
Le due vicende di cronaca nera hanno scosso gli animi della popolazione serba, della politica e dei media. Mercoledì 3 maggio, da Belgrado arriva la notizia di una sparatoria nella scuola elementare “Vladislav Ribnikar”: perdono la vita otto bambini e bambine e un collaboratore scolastico. Colpi partiti dalle mani di un tredicenne, appropriatosi delle armi detenute dal padre, che è attualmente in stato di arresto.
A distanza di poche ore, un ulteriore omicidio di massa fa tremare nuovamente la Serbia, avvenuto il 4 maggio nella municipalità di Mladenovac: questa volta è un ventunenne a sparare da un’auto, togliendo la vita a otto persone (tra cui un poliziotto) e ferendone altre quattordici.
Sono stati subito indetti tre giorni di lutto in tutto il paese. Il tempo di attivare un ciclone mediatico.
Un primo cambio di regia al ministero dell’Educazione, con le dimissioni del ministro Branko Ružić dopo le incaute dichiarazioni sul pericolo generato dalla cultura occidentale, attraverso internet e videogiochi violenti.
Segue l’azione repentina del presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, che ha definito questi attacchi come un pericolo per tutta la Serbia, chiamando all’appello la popolazione per un disarmo di massa con la consegna volontaria delle armi detenute illegalmente, promettendo in cambio un’amnistia.
A questo, nel discorso del Presidente si aggiunge l’intensificarsi della presenza di forze dell’ordine nelle strutture scolastiche e un’accentuata attenzione posta su alunne e alunni considerati “socialmente problematici” nei contesti educativi.
Una psicosi politica riportata ampiamente dai media, che ritornano ad essere al centro di numerose critiche dopo la diffusione di notizie incerte e sensibili sulle due sparatorie.
I dettagli riportati da Vučić e dal capo della polizia di Belgrado, Veselin Milić, sull’identità del tredicenne responsabile dell’omicidio di massa nella scuola sono il chiaro esempio di una crisi del codice etico dell’informazione.
Una mobilitazione storica: la Serbia contro la violenza
Oltre al fiume di gente accorsa sui luoghi delle tragedie, in molte città sono state organizzate manifestazioni.
In particolare, l’opposizione ha dato il via alla protesta “Serbia Against Violence”, con la quale si richiede la chiusura di tutti gli organi di informazione e dei programmi vicini al governo che promuovono la violenza e che violano le norme deontologiche, nonché le dimissioni dei membri del Comitato governativo di regolazione dei media elettronici (REM), del ministro dell’Interno, Bratislav Gašić, e del direttore dell’Agenzia per la sicurezza dello Stato, Aleksandar Vulin.
Le proteste sono culminate nel corteo di venerdì 12 maggio, con una marcia che ha coinvolto decine di migliaia di serbi uniti nel motto della manifestazione contro la violenza.
Viene fatto appello ad un concetto di sicurezza differente, che possa trovare risposta in un parlamento che rifiuta l’autocrazia e la corruzione, in un sistema di informazione sicuro e affidabile.
La mobilitazione dell’opposizione è stata contestata da Vučić, che l’ha accusata di “giocare con le emozioni delle persone”, richiamando i suoi lealisti da tutta la Serbia ad una grande contro-manifestazione filo-governativa il 26 maggio.
La militarizzazione come concetto chiave
Non è una novità: la cultura delle armi nei Balcani occidentali è particolarmente radicata. Le guerre degli anni Novanta che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia hanno lasciato in mani private un numero considerevole di armi di livello militare.
Nello specifico, la Serbia è al primo posto in Europa per numero di armi possedute ogni cento abitanti – al quinto, nel ranking mondiale di World Population Review.
Dati che si riferiscono a quelle legalmente registrate: vanno a ciò aggiunte le armi automatiche e gli ordigni esplosivi per cui la legge serba (molto articolata sul tema) non consente l’emissione della licenza. Al contempo, fino alle tragiche vicende dei giorni scorsi, i casi di sparatorie di massa, a differenza di contesti come quello statunitense, risultano sporadici.
Una “relazione” con le armi, feticcio di una tradizione e di un’immagine militare del paese, che fa da contraltare alla più concreta paura che la Serbia stia vivendo una “normalizzazione della violenza”.
Come ci ricorda Marina Nadejin-Simić, psicologa intervistata da Al Jazeera, spesso è la televisione stessa a veicolare interviste in cui compaiono criminali condannati per diversi reati, dando spazio alla loro narrazione e alla glorificazione di un nazionalismo che celebra il revisionismo storico.
Si crea un ponte, un legame tra la direzione politica populista e il processo di militarizzazione che ha coinvolto la popolazione serba negli ultimi anni. Pompose parate, come lo spettacolo in “Difesa della libertà” organizzato a Niš nel 2019 per celebrare la potenza dell’esercito di Belgrado, la fiera internazionale delle armi, ampi spazi dedicati sui media alle esercitazioni militari – esempi di una narrativa che restituisce l’immagine degli armamenti come protagonisti della forza del paese.
Eventi drammatici come delle sparatorie di massa vanno analizzati in maniera trasversale e partendo dalla psiche individuale che guida verso gesti così estremi.
È altrettanto chiara la necessità di collocare i singoli all’interno di un tessuto sociale che, nel caso della Serbia, è da anni esposto alla retorica della violenza, come linguaggio che ricerca mezzi e contesti di espressione.
(East Journal, Ivana Ristovska)