Intervista di Virginia Fernandez e Dale Zaccaria alla reporter indipendente ed ecofemminista spagnola Patricia Simón.
L’incarcerazione di giornalisti è aumentata in tutto il mondo, stabilendo un nuovo record, con un totale di 533 giornalisti imprigionati, secondo il rapporto annuale 2022 di Reporter senza frontiere. Questa cifra riflette, da un lato, la precarietà di poter esercitare questa professione in sicurezza, ma anche la necessità, più che mai, di continuare a denunciare gli abusi e le violenze che derivano dal potere politico e finanziario.
Patricia Simón, specializzata in giornalismo sui diritti umani con un approccio femminista, afferma che la persecuzione dei giornalisti nel mondo è diventata un vero e proprio “termometro dell’ondata reazionaria che perseguita le libertà e i diritti” in molti Paesi.
In questo senso, la Simon ritiene che l’aumento delle carcerazioni è una risposta al “crescente numero di Paesi governati da regimi autoritari” per i quali i giornalisti sono un ostacolo al loro continuo accumulo di ricchezza e potere.
Per i Presidenti di diversi Paesi, come Marocco, Turchia, Nicaragua, Russia, con la stessa modalità di accuse verso i giornalisti, così da incarcerarli, l’accusa è sempre la stessa: quello di essere spie di Paesi nemici o di andare contro l’interesse e la sicurezza nazionale.
La libertà di espressione, come la democrazia, sono messe all’angolo dal populismo e dall’estrema destra. Simón vede un paradosso in queste cifre: “Prima, in Paesi come la Colombia, c’era un numero maggiore di omicidi di giornalisti. Ora ci sono più incarcerazioni, come in Arabia Saudita. E va notato che, nonostante tutte le difficoltà, non ci sono mai stati così tanti giornalisti nel mondo che oggi si impegnano a denunciare la corruzione, le violazioni dei diritti umani, la repressione, in condizioni precarie e sapendo che potrebbe costare loro la prigione, l’esilio o la vita. Sono uomini e donne la cui professione rimane spesso sconosciuta al grande pubblico.
Patricia Simón rivendica, soprattutto per questo motivo, il dovere etico di continuare a praticare il giornalismo di denuncia e d’inchiesta, a maggior ragione nei Paesi in cui possiamo continuare a farlo senza rischiare la vita. dove, nonostante la crescente criminalizzazione, continuiamo ad avere un sistema giudiziario che garantisce i nostri diritti. Sottolinea inoltre che mai prima d’ora c’è stato un giornalismo di così buona qualità, dai piccoli media di tutto il mondo ai professionisti delle grandi testate. Giornalisti impegnati che mettono in discussione i propri pregiudizi e ricercano nuovi modi per raccontare meglio ciò che ci accade. Ma allo stesso tempo, ci ricorda, ci troviamo di fronte a una “macchina della disinformazione multimiliardaria che cerca di generare scontro, polarizzazione e di rompere la coesione sociale in una cittadinanza potenzialmente sensibile a questo discorso di odio” e che ha permeato l’opinione pubblica negli ultimi anni.
Alla ricerca delle chiavi per un giornalismo che faccia riflettere, ma che mobiliti anche i cittadini, abbiamo parlato con Patricia Simón dello stato della libertà di stampa nel Paese, ma anche di casi più specifici, come quelli dei giornalisti Julian Assange e Pablo González, tra gli altri.
In relazione a Julian Assange, pensi che sarebbe possibile rilasciarlo o stanno solo cercando di mantenere un limbo giudiziario indefinito, con la possibilità che possa morire in carcere?
Non so se sarà libero, ma è di vitale importanza provarci. In primo luogo, perché la libertà di Assange significa la difesa dei valori democratici, del diritto all’informazione e della libertà di stampa. In secondo luogo, perché glielo dobbiamo. Grazie a lui, conosciamo i crimini contro l’umanità commessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresa la Spagna, nell’invasione illegale dell’Iraq e nell’intervento in Afghanistan. E in terzo luogo, difendere la sua libertà è il minimo che possiamo fare, visto che per noi difendere i diritti umani significa non correre alcun rischio. Difendere Assange significa difendere tutti i giornalisti che ogni giorno affrontano persecuzioni, imprigionamenti e omicidi nella maggior parte dei Paesi del mondo senza che i loro nomi siano conosciuti al di là dei confini del Paese in cui si trovano.
In Spagna non c’è stata una mobilitazione molto chiara dei cittadini per difendere la liberazione di Assange, a differenza di altri Paesi dell’America Latina. A cosa pensi sia dovuto questo fenomeno e cosa potremmo fare per generare una maggiore mobilitazione?
Viviamo in società esausta, indebolita dalla dottrina d’urto di tanti attacchi alla cittadinanza e, allo stesso tempo, coinvolte in molte lotte, per esempio in Spagna, dove la Legge Bavaglio ha fortemente indebolito il diritto alla libertà di espressione e il diritto all’informazione. Ma credo che dobbiamo considerare il contesto internazionale, in primo luogo, perché l’estradizione negli Stati Uniti potrebbe essere imminente, e in secondo luogo perché abbiamo leader come Lula da Silva, che ha evidenziato l’importante significato che rappresenta difendere la libertà di Julian Assange. Media, giornalisti e attivisti dovrebbero solo unirsi per chiedere il rilascio di Assange.
Analogie o differenze tra il caso Assange e quello di Pablo González?
Nessuno dei due ha un processo giudiziario trasparente ed equo. Non è giustificabile che in una democrazia dell’Unione Europea una persona possa essere tenuta in carcere per più di un anno senza avere accesso alle accuse contro di lui, alle presunte prove, e che non possa difendersi in tribunale. Il fatto che tutto questo avvenga nell’Unione Europea dovrebbe metterci in guardia sull’impotenza di uniformare i diritti fondamentali tra tutti gli Stati membri.
Qual è il ruolo della stampa oggi, in questo contesto tecnologico, dove è più facile diffondere fake news e dove i cittadini devono scegliere con maggiore attenzione le fonti di informazione?
Credo che in termini di quantità non abbiamo mai avuto accesso a così tante informazioni di qualità. Tuttavia, ciò che non abbiamo mai avuto nella storia dell’umanità è una macchina di disinformazione multimilionaria, progettata e impegnata quotidianamente per manipolare, frammentare la realtà e soprattutto convincere il pubblico che “sono tutti uguali, tutti mentono e non c’è verità, non ci sono fatti”. Questa è la strategia dell’ultradestra e di alcuni populismi per dirottare le democrazie dalle urne.
Media che non siano solo siti web finanziati da partiti ultra politici e gruppi economici che vogliono difendere i loro privilegi. Soprattutto le televisioni private, che modulano l’opinione pubblica e producono ore e ore di discorsi d’odio per criminalizzare i poveri, facendoli sentire una minaccia gli uni per gli altri. Come la società, anche l’ecosistema dei media è altamente polarizzato.
Abbiamo media molto diversi, pluralistici, democratici e di qualità e, dall’altra parte, altri la cui funzione è quella di avvelenare il pubblico con l’odio, la frustrazione e la paura, al fine di alimentare il disincanto nei confronti delle democrazie in modo che votino per la mano pesante.
La cosa peggiore è che si tratta di un fenomeno globale perché, come spiega Ecce Temelkuran in Cómo perder un Pais (Anagrama), l’estrema destra è organizzata e condivide strategie e risorse a livello internazionale. Nel frattempo, noi democratici pensiamo sempre più a livello locale.
Quali sono stati i tuoi riferimenti per il giornalismo che denuncia la violazione dei diritti umani?
I miei grandi riferimenti sono stati giornalisti colombiani come Eduardo Márquez e Alfredo Molano, bravissimi professionisti durante il periodo dell’Uribismo. Hanno visto morire uccisi molti colleghi e non hanno mai dubitato della loro funzione. Anche tutti quei giornalisti locali che hanno dovuto vendere loro stessi la pubblicità per comprare spazi sulle radio locali per denunciare i leader paramilitari, i loro legami con i sindaci, e persino, molte volte, con le autorità locali, con i propri media, perché erano molto chiari sul fatto che questo era il loro dovere di contribuire alla pace. E questo significava che se non erano disposti a farlo, dovevano lasciare il giornalismo. Poi sono arrivati i grandi cronisti latinoamericani: Caparrós, Guerriero, Óscar Martínez o Daniela Rea. Mi hanno insegnato che questo è il nostro dovere, soprattutto perché possiamo sempre tornare in Paesi sicuri come la Spagna.
In che modo il giornalismo di denuncia potrebbe essere praticato con maggiore sicurezza? L’esilio potrebbe essere un’alternativa, a seconda della situazione?
In Spagna abbiamo molti colleghi rifugiati provenienti da diversi Paesi, come giornaliste che ora sono nostre vicine che sono dovute partire dall’Afghanistan quando sono tornati i Talebani. Spiegano che, nonostante la vita fosse molto difficile per le donne, anche prima del ritorno dei Talebani, sono riuscite a praticare il giornalismo in alcune aree e a essere autonome.
In molte parti del mondo, il giornalismo è una professione profondamente emancipante per le donne. Daria Gavrilova ha deciso di lasciare la Russia quasi un decennio fa, quando si è resa conto che era impossibile fare giornalismo indipendente nel suo Paese. Non voleva essere complice della propaganda del Cremlino e dei suoi crimini contro l’umanità, come nel caso della guerra siriana. Tanti colleghi dell’Arabia Saudita, della Colombia, del Messico, dell’America Centrale hanno dato tutto per il loro impegno etico nel giornalismo.
È molto difficile fare giornalismo investigativo serio, visti i rischi e le minacce che i giornalisti devono affrontare oggi. In quali Paesi è particolarmente problematico?
Nel caso di Paesi dilaniati dalla violenza o dalla guerra la situazione è più complicata, così come in Stati falliti dove non c’è alcuna protezione. Abbiamo l’America centrale, dove i colleghi salvadoregni di El Faro sono dovuti andare in esilio per poter continuare a praticare il giornalismo al riparo dal presidente Bukele e dai suoi scagnozzi che li vogliono in prigione o morti.
Abbiamo i compagni in Nicaragua, che il regime di Daniel Ortega ha perseguitato, imprigionato e in alcuni casi ucciso. Ora sono per lo più in esilio e in condizioni precarie.
Il Messico è uno dei luoghi più pericolosi del mondo per esercitare la professione, per praticare il giornalismo indipendente. Quindi stiamo vedendo come l’esercizio del giornalismo libero stia diventando sempre più difficile in un numero sempre maggiore di luoghi. Allo stesso tempo, in democrazie come la Spagna vengono approvate leggi per ostacolarlo. D’altra parte, ci troviamo con media che sono le grandi aziende del Paese che ostacolano la pubblicazione delle loro pratiche di corruzione. E infine, c’è la precarietà del settore, che rende impossibile prendersi il tempo necessario per le indagini e costituisce una grande minaccia per il libero esercizio di un giornalismo disposto a farsi carico della complessità, delle sfumature e delle sfide del nostro tempo.
Per aderire al movimento di sostegno a Julian Assange in Spagna e per essere informati su altre azioni e iniziative di mobilitazione è possibile seguire i seguenti account Twitter:
@Spain4Assange e @AssangeTheatre.