In questo mese hanno fatto scalpore, con troppo poco risalto mediatico, le inchieste di Fanpage sui metodi correttivi e punitivi per il recupero dei tossicodipendenti impiegati dalla Comunità Shalom di Palazzolo Sull’Oglio (BS) gestita da Rosalina Ravasio, fondatrice della confraternita laica femminile delle Piccole Apostole (che non sono suore, ma religiose).
La Comunità Shalom, oltre all’endorsement che da ormai 40 anni riceva da VIP e personaggi famosi, è ritenuta dall’opinione pubblica come un’eccellenza nell’ambito del recupero dalle tossicodipendenze, ma in realtà è una comunità che non ha alcun tipo di accredimento riconosciuto presso il Servizio Sanitario Nazionale. La Shalom è una struttura che non ha personale formato e competente nell’ambito della riabilitazione, sui cui non vi sono dati sull’efficacia dei suoi metodi e su cui non vi è alcun tipo di controllo statale, compresi i controlli dell’ATS.
Per quanto questa Comunità abbia conquistato l’interesse e la solidarietà di gran parte del senso comune, delle istituzioni, del mondo ecclesiale, delle gerarchie vaticane, di molte parrocchie ed oratori, non si puo’ dir lo stesso per quanto riguarda il mondo del terzo settore e di chi opera nel sociale con criterio, metodo e competenza, ben diversi dai soprusi, dalla colpevolizzazione e dalla violenza verbale, fisica e diseducativa che si pratica all’interno della Comunita’ Shalom. Creare un progetto personalizzato che sia più efficace possibile è quindi fondamentale. Di questo parliamo con Marco Dotti, attivista, operatore sociale e educatore professionale nonché agente di rete presso il Carcere di Canton Mombello a Brescia.
Come nasce e come si sviluppa la Comunità Shalom negli anni Ottanta?
Non conosco l’origine della struttura ma, seppur ogni storia ha caratteristiche proprie, credo che anche Shalom nasca durante l’emergenza droga, quando diverse persone impegnate nel sociale si sono chieste come rispondere al crescente numero di persone intossicate e ai morti per overdose. Era un fenomeno nuovo e preoccupante, non c’erano strategie condivise o già sperimentate. Come molte altre realtà ancora operative oggi Shalom credo si sia avvalsa della leadership di Suor Rosalina che voleva far qualcosa sul tema.
Tra di noi operatori per la verità non si associa per nulla Shalom alla parola eccellenza. Chiunque di noi abbia lavorato sul tema, chi di noi conosce i limiti e le metodologie di intervento, chi ha capito il potere generativo della relazione educativa non può associare il modello Shalom alla parola eccellenza. Per la verità non credo che nemmeno ospiti o famiglie oggi possano associare quella parola a Shalom.
Mi scuso da subito per l’associazione, ma per maggior chiarezza ti rispondo dicendoti che ogni comunità accreditata è come un “ospedale” per le dipendenze: abbiamo l’obbligo di analizzare specificatamente la “malattia” e metterla in rapporto con le risorse del singolo. Creare un progetto personalizzato che sappia rendere più efficace possibile è quindi fondamentale. I metodi utilizzati possono essere influenzati dallo spirito che anima la comunità, dalle idee e dagli studi fatti da ogni singolo responsabile ma mai possono uscire dai confini tracciati dalla legge, dalle norme, dall’etica professionale e fra questi c’è diritto alla libertà di scelta, anche di interrompere il percorso di cura. I tempi da accreditamento regionale vanno dai 3 mesi all’anno e mezzo massimo.
Se fosse una comunità terapeutica dovrebbe avere un numero di educatori professionali, psicologi, psichiatri e infermieri in rapporto al numero di ospiti. Alle persone con un passato di dipendenza si chiede una formazione specifica prima di poterli impiegare in ruoli interni alle strutture. Quindi Shalom non è una comunità terapeutica. E’ una comunità che noi chiamiamo “di vita” come ce ne sono molte altre. Non mi risulta però che ci siano altre comunità “di vita” che permettano le violenze che ho spesso sentito raccontare da chi è stato “ospite” di Shalom.
Ovviamente nulla ci sono anzi profili penali da appurare.
Il metodo della carriola(1) non serve a sfinire il corpo ma a degradare lo spirito a umiliare l’anima a abbattere l’io. La violenza deve essere bandita non solo nei fatti ma anche nel linguaggio quando si vuole instaurare una relazione di cambiamento. Questo non è un metodo pedagogico, è una scorciatoia banale e brutale, buona solo a chi non sa come rispondere a degli atteggiamenti considerati devianti.
Colpevolizzare non serve. Questa storia del tossicodipendente che ha voluto lui ridursi così è molto radicata nella società ma è da superare. Se Rosalina la pensa così significa che si abbassa ad un livello di non esperta del mondo delle dipendenze, che banalizza il tutto perché non ha dei veri strumenti da mettere in campo, non conosce il modo delle persone che usano sostanze, non sa in definitiva come aiutarli.
Ci sono alcune sperimentazioni che hanno tentato di associare in strutture, soprattutto di reinserimento sociale, persone con disturbi o patologie diverse ma non credo sia un buon metodo in fase di analisi e cura. Mettereste un malato infettivo nello stesso reparto di un oncologico?
Non conosco ricerche sull’efficacia del suo metodo. Dire che qualcuno ha smesso di aver problemi non basta. Sfido Rosalina a dimostrare quali sono i suoi dati e a pubblicare le ricerche che avrebbe per le mani sui suoi livelli di gradimento e di efficacia. Ovviamente, non essendoci ad oggi nessun tipo di vigilanza esterna o pubblica su Shalom, noi oggi non possiamo far altro che chiedere all’oste se il suo sia o meno un buon vino.
Non riceve la retta dell’accreditamento al servizio sanitario, questo è vero. Per poterla chiedere bisogna dimostrare di attenersi ai protocolli, alle regole, alle direttive che Regione Lombardia e in generale il Servizio Sanitario Nazionale richiede. Ma questa è chiaramente una scelta di Rosalina per tenersi libere le mani. Su altre forme di finanziamento invece credo che ce ne siano. Sicuramente prende i contributi del 5×1000 e ha preso anche finanziamenti pubblici e privati a fondo perduto. Quelli li prendi e non devi dimostrare nulla.
Perché sulla carta non è una struttura sanitaria. L’uso dei farmaci che sedano la coscienza è grave per questo: se non c’è un continuo monitoraggio sanitario quei farmaci sono molto pericolosi. Rosalina rimane aperta solo perché si è insinuata in un territorio di mezzo che nessuno ha normato.
O Rosalina decide di smettere con la violenza, l’umiliazione e la privazione della libertà e si conforma al rispetto dei diritti dei suoi ospiti o deve chiudere. Altre realtà nel passato han fatto questo percorso. Alcune di queste addirittura han ottenuto un accreditamento. Non credo ci siano altre soluzioni: il rispetto delle persone, della loro dignità e dei loro diritti è un prerequisito per ogni percorso di emancipazione ma è anche un prerequisito etico e normativo che la società tutta, istituzioni e cittadinanza, deve pretendere.