Convivere con le alluvioni? In queste ore la consapevolezza che le immagini provenienti dall’Emilia Romagna e anche da parte delle Marche, quest’ultime fortunatamente meno drammatiche, ormai facciano parte del nostro presente e siano il nostro futuro, rischia di tramutarsi in impotenza, quasi arrendevolezza.
Non ci sono dubbi che i buoi sono scappati e la stalla sia vuota, dato che ci troviamo di fronte a dinamiche strutturali perché il cosiddetto cambiamento climatico è triste realtà. Ma per questo dobbiamo arrenderci all’evidenza e accettare periodicamente il tragico elenco dei nomi delle vittime (13 a settembre nel senigalliese, nove, al momento, in Emilia Romagna), la conta dei danni ingenti, la retorica insopportabile dei corrispondenti televisivi che con alle spalle gli allagamenti già parlano di “ripartenza”, della determinazione di chi sta “da subito rimboccandosi le maniche”?
Non ci sono dubbi che abbiamo alle spalle folli politiche del territorio, capannoni industriali che in decenni hanno stravolto il nostro paesaggio, insediamenti abitativi, frutto di una cementificazione selvaggia: basta pensare al litorale adriatico, di fatto una specie di megalopoli di centinaia di chilometri, con alberghi, case, e quant’altro praticamente senza interruzione, o quasi. Per non parlare di porti e porticcioli costruiti ovunque, come ricordava martedì un geologo consigliere nazionale di Italia Nostra, che fanno da tappo ai fiumi. Se getto lo sguardo dalla città dove abito, Senigallia, non c’è centro urbano, anche piccolo, che non abbia il suo, sia a Nord che a Sud, per cui certamente mettere mano a decenni di crescita selvaggia è dura.
Ma allora dobbiamo rassegnarci? Accettare il refrain che a ogni “emergenza” ci viene proposto dalle auto dei vigili urbani o della protezione civile, ossia “salire ai piani alti”? Già e le decine di migliaia di persone, spesso anziane, che abitano a piano terra – pensiamo alle piccole abitazioni nei paesini – che fanno se non possono “salire ai piani alti”? Si dovrebbero dotare tutte di un gommone, di una barca? O sperare che arrivi il volontario di turno e si carichi l’anzian* in questione e l* porti in salvo?
L’Italia da tempo ci appare come un Paese anestetizzato, dormiente, dove nonostante la precarietà crescente, lo smantellamento delle garanzie sociali, non si muove foglia, anche a causa della mancanza di soggetti sociali e politici in grado di favorire una risposta all’altezza della situazione. Per cui anche di fronte al disastro ambientale la risposta è inadeguata, seppure negli ultimi tempi una speranza ce l’hanno data i nuovi movimenti giovanili, da Fridays for Future a Ultima Generazione fino a Extinction Rebellion.
Ma è fondamentale che alla generosità e al protagonismo, sicuramente rilevanti, di questi soggetti si aggreghi un fronte più ampio che parta dai territori, dalle tante vittime della calamità di turno.
Spesso dopo le tragedie si formano dei comitati – lo abbiamo visto in questi mesi nelle località del senigalliese colpite dall’alluvione del 15 settembre – ma l’impressione è che l’età media spesso alta e una certa passività del resto della popolazione impediscano che tali istanze assumano le dimensioni di un vero movimento di massa.
Soprattutto, e chi scrive ha una certa esperienza del “comitatismo”, in questi ambiti inevitabilmente c’è una eterogeneità portatrice di confusione, dove a giuste istanze si somma una scarsa lucidità nell’individuare i veri “nemici” (sabato alla manifestazione dei comitati a Pianello d’Ostra, vicino a Senigallia c’è chi ha avuto il coraggio di criticare “gli ambientalisti”…).
Del resto non sempre la questione anagrafica è automaticamente un freno rispetto alla necessità di dispiegare una mobilitazione radicale ed efficace. L’esperienza dei gilet gialli in Francia e lo stesso movimento contro la legge sulle pensioni, hanno visto una partecipazione fondamentalmente di over 40/50, e solo nella seconda parte della recente ondata di scioperi contro Macron c’è stata una discesa nelle strade di giovani.
Dunque qui da noi la scommessa che abbiamo di fronte è da un lato riuscire a saldare le dinamiche dei nuovi movimenti ambientalisti con i comitati territoriali che si formano in occasione delle tragedie climatiche, dall’altro organizzare una partecipazione dal basso che imponga agli enti locali e al governo un’inversione di tendenza, e nello stesso tempo inizi ad esercitare una vigilanza e una cura dei territori fuori da un’ottica di delega. Una specie di “controllo popolare” a fronte dell’ignavia e della compromissione con il “partito del cemento” della classe dirigente.
Siamo stanchi di “salire ai piani alti”…