E’ verosimilmente doloroso per tutti constatare quanto nel corso degli anni i nostri modi di pensare si siano allontanati non solo tra di loro, ma anche da quanto davamo per scontato, forse avventatamente, in un periodo di intenso coinvolgimento collettivo, non solo politico, ma anche personale ed esistenziale. Certo, dopo il dissolvimento di quella stagione, ciascuno ha preso la sua strada; strade differenti e spesso divergenti, contrassegnate per anni da figure e personaggi inconsistenti e spesso ridicoli, incapaci di creare incomprensioni reciproche radicali. Anche perché poi di fatto il loro operare non divergeva granché. Ma ora che di mezzo c’è il massacro dei migranti, la guerra mondiale alle porte e l’imminente distruzione della vita umana sulla terra, ritrovare quell’afflato che ci aveva tenuti uniti è più difficile per tutti. Ora ci viene detto di difendere i valori occidentali contro la barbarie che viene dall’est.
Nel frattempo, sul fronte sud che ci separa dal mondo dei sommersi, facciamo valere quegli stessi valori affidando la soppressione di migliaia e migliaia di vite ai silenzi del deserto e del mare (il quale a volte urla, inascoltato, quando i naufragi avvengono troppo vicino alle “nostre” coste). Mentre sulla “rotta” dei Balcani affidiamo a polizie nazionali, intergovernative (Frontex) e private un corpo a corpo con quei nemici dei nostri valori fatto di bastonate, furto di soldi e miseri valori, distruzione di documenti e cellulari, abbandono nella neve di gente nuda e scalza, graffiata dal filo spinato che ha già cercato decine di volte di passare, insieme a mogli e figli, a vecchi e bambini. Siamo pieni di lager, non solo in Libia, ma anche ai confini interni dell’Europa e facciamo finta di non vederli.
Do comunque per scontata – c’è chi lo richiede – la regola di non ridurre ciò che precede a causa di ciò che segue; altrimenti – si è detto – dovremmo risalire a Caino (che forse aveva i suoi “buoni motivi”, ma non per questo una giustificazione) e Abele (che forse qualcosa avrà fatto pure lui…). Quindi, tabula rasa del passato, anche se per me il primo aggressore in questo conflitto non è stata la Russia di Putin contro l’Ucraina, ma questa contro la sua stessa popolazione del Donbass, perché di lingua, cultura e sentimenti filorussi. Dal 2014 ci sono state in Donbass 14mila vittime di guerra. Alcune, certo, tra le milizie (naziste) di Kiev, altre nel suo esercito, molte tra le milizie (non esenti da presenze naziste anch’esse) delle regioni che aspiravano all’autonomia e altre ancora tra le truppe russe di supporto. Ma la maggior parte tra la popolazione civile di quei territori, ucraina ma russofona, costretta per otto anni a vivere come topi nella cantine di case bombardate un giorno sì e l’altro anche. E da chi?
Da chi stava aspettando, anzi, si stava adoperando, perché la Russia di Putin scendesse in guerra. D’altronde la Nato stava da tempo armando l’Ucraina come se fosse già un suo membro e la stessa Merkel (non una “guerrafondaia”) ha ammesso che gli accordi di Minsk, che prevedevano una forte, ancorché indeterminata, autonomia del Donbass, erano stati sottoscritti e disattesi “per prendere tempo”: in attesa di una guerra provocata dagli Stati già inclusi nella Nato, “abbaiando” ai confini della Federazione Russa.
Ma da oltre un anno le truppe ucraine sparano 9mila cannonate al giorno – tanto da esaurire persino le scorte di proiettili degli Stati Uniti – su un territorio che considerano loro. E le truppe russe ne sparano altrettante al di là del fronte, contro un Paese che considerano nemico, anche se non gli hanno mai dichiarato guerra. Sappiamo, ce lo raccontano ogni giorno TV e quotidiani, i danni e i morti che provocano i russi, anche deliberatamente, ma i 9mila proiettili ucraini (cioè della Nato) colpiscono solo obiettivi militari? Non distruggono anche loro edifici e infrastrutture, non ammazzano persone, non inquinano campi, fiumi e falde, ora anche con proiettili all’uranio impoverito? Proprio quelli che hanno provocato 8mila tumoti e 400 morti ai soldati italiani impegnati a suo tempo in Serbia e chissà quanti – si dice 30mila all’anno, da allora e “per sempre” – tra la popolazione civile. Gli stessi con cui sono stati devastati per sempre anche l’Iraq e la sua popolazione…
Che senso ha allora difendere – anzi, voler riconquistare – i confini di un territorio proprio mentre lo si sta distruggendo? Che “amor di patria” è mai quello che spinge a trasformarne una parte in una gigantesca Chernobyl? Vediamo in TV molti testimoni delle persecuzioni inflitte dai russi, per lo più a popolazioni che anche il governo ucraino si era già premurato di perseguitare. Ma come verranno trattati i profughi ucraini russofoni, “rifugiati” in Russia per amore o per forza, se mai potranno fare ritorno in quei territori martoriati, una volta che restituiti alla loro matrigna madrepatria? E quando? E come?
Si invoca il diritto all’autodifesa. Sacrosanto. Ma difesa di che? Di un territorio che intanto viene distrutto e reso inabitabile da chi lo rivendica, facendo pagare il prezzo di questa distruzione anche a chi, da questa parte del fronte, subisce un trattamento corrispondente a opera dell’artiglieria e dei razzi russi? Che cosa rimarrà dell’Ucraina dopo una vittoria che più viene invocata e più si profila lontana?
Il fatto è che si discute di questo conflitto, che sta costando centinaia di migliaia di morti (Quanti? Non si sa. Abbiamo le stime, spesso farlocche, diffuse dal governo ucraino, ma anche quelle dei servizi segreti Usa trafugate dai russi, anch’esse probabilmente farlocche) come se l’alternativa fosse solo tra “vittoria” e “resa”. Quale vittoria? La resa di Putin? Il suo disarcionamento a opera di Prigozin e soci? La dissoluzione della Federazione Russa e la sua trasformazione in un’immensa Libia a disposizione degli appetiti di Nato, Cina, Turchia, Pakistan e – perché no? – Isis? O, estrema ratio – ma non più tanto estrema – una bomba atomica che scateni l’Armageddon? O quale resa? L’occupazione militare permanente di una popolazione che ci viene raccontata indomita da parte di truppe mercenarie, o inconsapevoli, o insofferenti, reclutate ai margini dell’impero russo? Una Grozny permanente al centro dell’Europa, destinata poi a moltiplicarsi per cento, fino alle coste atlantiche del Portogallo?
E’ fin troppo chiaro, allora, perché nessuno si spinga a spiegare che cosa significa vittoria e che cosa significa resa in questo frangente. Quello che in questo modo non viene messo in discussione è un dogma: non quello della pace perpetua di Kant, ma l’idea che a ogni guerra non ci sia altra alternativa che più guerra.
Invece le alternative ci sono. Intanto il cessate il fuoco: il risparmio di decine se non centinaia di migliaia di altre vite umane e dei pochi habitat ancora vitali e l’allontanamento dell’”opzione” atomica. Poi la mediazione: ieri gli accordi di Minsk, oggi una soluzione che salvaguardi le condizioni minime di vivibilità delle popolazioni restituite ai loro territori. Con una garanzia internazionale della loro autonomia, in attesa che l’ossessione dei confini si allenti. Poi, forse, la ricostruzione. Ma quale, su un suolo irreversibilmente inquinato? E pagata da chi? E come? Con una nuova Versailles a spese della popolazione russa? E le armi? Truppe, mezzi e atomiche lungo questa nuova cortina di ferro che divide l’Europa da se stessa? Ma che non divide più capitalismo (e “democrazia”) da comunismo (e “totalitarismo”), bensì due imperi, non meno nocivi uno dell’altro per le popolazioni a essi soggette dalla Siberia alla Terra del Fuoco.
E poi? Non siamo forse alle soglie di una catastrofe climatica e ambientale? Ed è forse con le bombe, i cannoni, i tanks e i razzi che intendiamo sventarla? E non è forse questo – sventarla – il compito prioritario di chi ci governa? Ovunque e comunque? Ma quanti “convinti ambientalisti” se ne sono dimenticati…