Che nesso c’è tra antifascismo e Costituzione?
È assai nota la frase di Piero Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Inoltre, c’è un legame evidente tra antifascismo e Costituzione per la presenza esplicita della XII Disposizione finale: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Fascista”.
In realtà, oltre a queste premesse, ci sono almeno cinque ragioni che mostrano questo nesso inscindibile tra antifascismo e Costituzione.
- Il fascismo – come tutte le dittature – ha potere di vita e di morte sui sudditi. Il fascio littorio – simbolo del fascismo – era, nell’Antica Roma, l’arma portata dai littori, che consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno a una scure, a rappresentare il potere di vita e di morte sui condannati. La Costituzione riconosce il valore “insopprimibile e inviolabile della persona umana” (Dossetti). L’Ordine del Giorno presentato in Assemblea Costituente il 9 settembre 1946 da Giuseppe Dossetti è estremamente chiaro: “Il nuovo statuto dell’Italia: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; c) affermi sia l’esistenza dei diritti fondamentali delle persone sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”.
- Il fascismo esalta la guerra, la considera addirittura un valore positivo. Mussolini – anche durante il secondo conflitto mondiale – ripete che la guerra è la cosa più importante nella vita di un uomo. La Costituzione afferma che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il verbo ripudia è molto efficace e rivela un’autocritica implicita: si ripudia ciò che si è conosciuto e fatto…
- Il fascismo – come ha scritto la costituzionalista Barbara Pezzini – assume la discriminazione come propria categoria fondante, sino all’estrema abiezione delle leggi razziali.
La Costituzione si fonda sulla pari dignità sociale, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sui diritti (e sui doveri) di ogni cittadino/a. - Il fascismo cancella il pluralismo. Con il regime fascista non c’è più libertà di stampa, di riunione, di associazione, di sciopero, ecc. Qual è il grimaldello che consente tutto questo? Nel 1923 viene approvata la legge Acerbo, la legge elettorale che abolisce di fatto il sistema proporzionale, fissando un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei seggi per la lista che arriva prima (oltre il 25%). Infine si arriva al Partito Unico (che è un ossimoro, una contraddizione in termini).
La Costituzione riconosce e promuove il pluralismo nella società e nella politica, tutelando le minoranze. - Il fascismo accentra il potere soprattutto nelle mani del Duce. Uno degli slogan fascisti era: “Il Duce ha sempre ragione”. Nel famoso discorso (del Bivacco) alla Camera del 1922, Mussolini dice: “Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo”. (Nota: Umberto Bossi nel 2008 alla Camera disse: “Io ho 300 mila uomini, i fucili sono sempre caldi”). La Costituzione ha una struttura istituzionale fondata sulla divisione, la distribuzione, la diffusione e l’autonomia dei poteri. Dossetti: “Questa distribuzione del potere tra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati è forse uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile”. E segnala due pericoli: “La Costituzione non può essere giocata sull’onda di avventati presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello istituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere messa in pericolo da qualche riforma che intacchi la totale indipendenza e unità dell’ordine giudiziario”.
Oggi, considerando le recenti dichiarazioni di alcuni esponenti dell’attuale governo a proposito dell’antifascismo, fa impressione rileggere ciò che Calamandrei scriveva già nel 1946:
“Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo.
Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere un’incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.
No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi, in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato.
Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlare di antifascismo e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede.
I partigiani? Una forma di banditismo. I comitati di liberazione? Un trucco dell’esarchia, i processi dei generali collaborazionisti si risolvono in trionfi degli imputati.
I grandi giornali si affrettano a riaprire le terze pagine alle grandi firme, care ai lettori borghesi: dieci anni fa celebravano l’impero e la guerra a fianco della grande alleata, oggi scrivono collo stesso stile requisitorie contro la pace spietata e il pubblico si compiace di questi elzeviri ritrovati e non si accorge che questa pace è la conseguenza di quella guerra.
Finita e dimenticata la Resistenza, tornano di moda gli “scrittori della desistenza” e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.
Sono questi i segni dell’antica malattia. E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti.
Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui sono morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.
Dopo la breve epopea della Resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della Resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, essere complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non essere mortale”.