Non è stato ancora risolto il paradosso di società occidentali che anche oggi dicono di difendere i valori della “democrazia, libertà individuale, diritti umani e Stato di diritto” facendo l’opposto. Ed è finito ingiustamente in carcere chi, come Julian Assange, ha avuto l’ardire di raccontare la verità sul bagno di sangue di civili che fu quella guerra.
Il 20 marzo ho sfogliato molti dei quotidiani italiani. Cercavo, in particolare, articoli che ricordassero ai lettori che, esattamente 20 anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti avevano cominciato a sganciare bombe e missili sull’Iraq.
Vent’anni dopo, i media italiani tacciono. Muti. Come se l’anniversario non esistesse. A parte Left che aveva dedicato a questo tema, già sul numero di febbraio un pezzo di Alfio Nicotra di Un ponte per dal titolo Vent’anni dopo quell’oceano pacifico di manifestanti contro la guerra. Fatta eccezione per un articolo a pag. 17 de La Repubblica, e per un articolo di Domenico Quirico a pag. 14-15 de La Stampa (con richiamo in prima pagina), il nulla assoluto.
I media non sono un attore come un altro. Oggi costituiscono l’”avanguardia del partito della guerra” (Serge Halimi e Pierre Rimbert su Le Monde Diplomatique di marzo 2023) e, in generale, sono fondamentali nel produrre percezioni, senso comune, consenso, riprodurre l’ideologia dominante. Vent’anni fa furono proprio i media, a livello internazionale, a costruire le condizioni per l’invasione. Dan Rather, mezzobusto del telegiornale statunitense CBS Evening News per 24 anni, nel 2010 affermava che “se come giornalisti avessimo fatto il nostro lavoro, credo che potremmo sostenere con forza che probabilmente gli Stati Uniti non avrebbero mosso guerra all’Iraq”.
Cosa intendeva Rather? Che i media cominciarono a far suonare i tamburi di guerra mesi prima di quel terribile 20 marzo 2003. Per rimanere negli States, nelle due settimane che precedettero l’invasione, nelle emittenti ABC, CBS, NBC e PBS – tutte schierate sulla linea del presidente Bush – su 393 interviste totali solo 3 furono a membri di associazioni o gruppi contrari alla guerra: 390 a 3. E che, sempre gli stessi media, diedero per buone tutte le parole e le versioni che uscivano dalla bocca dei rappresentanti della Casa Bianca e del governo di Washington.
Non è probabilmente un caso che il 30 gennaio 2003, otto Paesi europei (Italia, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Danimarca) scelsero uno dei principali media internazionali, il Wall Street Journal, per pubblicare una lettera in cui offrivano il loro appoggio alla guerra che Washington stava per scatenare contro Baghdad: “Il vero legame tra europei e statunitensi è costituito dai valori che abbiamo in comune: democrazia, libertà individuale, diritti umani e Stato di diritto”.
Serviva costruire una narrativa epica, serviva nascondere dietro la prosopopea dei “valori” l’imminente invasione dell’Iraq. Ancora: quando il 5 febbraio 2003, dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Colin Powell presentò la famosa “pistola fumante” delle fialette che avrebbero provato il possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa; quando si accusava il regime di Baghdad di complicità con Al-Qaeda, nessun media faceva domande. Anzi, riproducevano allegramente le frottole del potere e davano addosso a chi si batteva per la pace (all’epoca chiamavano “pacifondai” quelli che oggi definiscono “pacifinti”). Così, il 6 febbraio 2003 La Stampa di Torino titolava “Powell: così Saddam nasconde armi e veleni”; il noto editorialista Pierluigi Battista scriveva in prima pagina “Gli scettici e la pistola fumante”, dando ovviamente addosso a chi si permetteva di porre dubbi sulla versione propagandata da Powell. Si riportava che l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi parlava di un “Powell convincente” e aggiungeva che “Il segretario di Stato Powell ha dimostrato che l’Iraq ha ostacolato la missione Onu e continua a intrattenere rapporti con il terrorismo internazionale”.
Cominciata l’invasione, il potere mediatico si produsse in un’altra trovata e imparammo a conoscere il “giornalismo embedded”: i corrispondenti venivano direttamente “incorporati” nell’esercito statunitense, dopo aver firmato un apposito accordo di riservatezza e segretezza. La funzione del “giornalismo embedded” fu spiegata in maniera cristallina dal tenente colonnello Rick Long, del corpo dei Marines statunitensi: “Francamente, il nostro lavoro è vincere la guerra. Parte di questo lavoro è la guerra di informazione. Per questo cerchiamo di dominare l’ambiente dell’informazione”.
Vent’anni dopo l’inizio dell’invasione dell’Iraq sappiamo che poco è cambiato. La struttura del potere mediatico non è affatto cambiata, anzi. I giornalisti che mentirono, che contribuirono allo scatenamento del massacro in Iraq, nella stragrande maggioranza dei casi sono ancora ai loro posti. Senza nemmeno aver dovuto chiedere scusa. Non è stato ancora risolto il paradosso di società occidentali che anche oggi dicono di difendere i valori della “democrazia, libertà individuale, diritti umani e Stato di diritto” facendo l’opposto.
Tra i pochi finiti in carcere c’è una delle pochissime voci che ha avuto l’ardire di raccontare la verità di quello che fu quella guerra: il “bagno di sangue” di 109mila morti, prima mai considerati, principalmente civili, oltre ad Abu Ghraib, l’uccisione del giornalista spagnolo Couso. Quella è la voce di Julian Assange, detenuto dall’11 aprile 2019 nel carcere britannico di massima sicurezza di Belmarsh. Assange è il simbolo vivente che il sistema premia il giornalismo quando è supino ai suoi desiderata e lo punisce quando osa funzionare per davvero come “cane da guardia”. (Per approfondire leggi il libro di Left su Assange).
Oggi i valori di cui pomposamente si riempiono la bocca politici, giornalisti ed editorialisti di casa nostra sono smentiti plasticamente da Julian Assange in cella. Perché “la prima vittima di ogni guerra è la verità” non è una citazione di Eschilo, ma il triste presente.
Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo