Il 28 marzo per la decima volta il mondo del lavoro francese si è fermato per lo sciopero generale di tutte le categorie. Centinaia di migliaia di scioperanti hanno invaso le strade di Parigi e almeno altri due milioni di manifestanti si sono riversati nelle strade delle principali città della Francia. Sono state bloccate le autostrade, occupate le stazioni ferroviarie, invasi gli aeroporti, chiusi i porti. L’intero Paese è stato paralizzato da una lotta che non vede la fine: per il 6 aprile è prevista una nuova mobilitazione di massa e l’undicesimo sciopero generale. Lavoratori, disoccupati, studenti, immigrati scendono in piazza per difendere il proprio tempo libero, per ribadire che non si vive solo per lavorare, per affermare il diritto all’ozio. Un rifiuto categorico all’innalzamento di due anni dell’età pensionabile. Si scende in piazza per difendere scuola e sanità pubblica. Si scende in piazza contro il Governo Macron che ha imposto la legge sulle pensioni in modo autoritario, esautorando il Parlamento e impedendogli di approvarla o respingerla.
In Francia la mobilitazione di massa, con dieci veri e combattivi scioperi generali, è stata diretta dai maggiori sindacati dei lavoratori, in primo luogo dalla CGT, FO, SUD. Ad occupare stazioni, aeroporti, nodi stradali ci sono i lavoratori con le bandiere dei sindacati. Le bandiere dei sindacati sventolano durante i duri scontri con le forze repressive dello Stato. Gli scioperi si sono distinti per la loro radicalità e intransigenza. Non sono pochi casseurs a contrastare i flics, ma intere masse di scioperanti, con i dirigenti sindacali in prima fila. Non sappiamo se il movimento di lotta francese riuscirà a vincere questa battaglia, ma sicuramente stiamo assistendo ad una grande unità di classe, ad uno scontro sociale che nel nostro Paese non si vede da decenni. I lavoratori francesi stanno dando una lezione di come si lotta a tutti i lavoratori del Continente.
Ma come mai in Italia assistiamo a una pace sociale così diffusa, anche se l’età pensionistica è stata innalzata ai 67 anni e i salari sono fra i più bassi del mondo industrializzato?
L’Italia dalla seconda metà degli anni ‘60 fu attraversata da un vento innovatore e da una carica di lotta sindacale che stava scuotendo tutto il Continente. Le lotte operaie, iniziate con gli scontri di Piazza Statuto a Torino nel ‘62, imposero la propria autonoma agenda al mondo politico e imprenditoriale: meno tempo di lavoro, più diritti sindacali e individuali, più potere nei posti di lavoro, più istruzione, più salario. Lo Statuto dei Lavoratori e la nascita dei consigli di fabbrica, come strumento di contropotere operaio, furono la conseguenza di quelle lotte che si svilupparono sulla concezione, secondo cui il salario doveva essere una variabile indipendente dal processo capitalista: furono queste le linee portanti del movimento di lotta operaio e sociali che videro nell’autunno caldo del 1969 il momento di massima espressione politica contrattuale.
Ma dal 1977 in poi, con la svolta di Berlinguer sulla politica dei sacrifici, il movimento sindacale in Italia opera una svolta storica che porterà alla marginalità sociale tutto il movimento dei lavoratori.
Già nel 1977 il sindacato di Lama si contrappone al tumultuoso movimento anticrisi e antisacrifici (movimento del ‘77) con la clamorosa provocazione nel febbraio ‘77 del comizio di Lama all’Università La Sapienza di Roma occupata dagli studenti. La strategia di Lama si concretizza al convegno sindacale dell’EUR del gennaio 1978 dove viene sancito che il lavoro è un “costo” per le aziende e che il salario non deve più rappresentare una variabile indipendente. Le affermazioni di Lama – “il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali”, “è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea, “l’accumulazione del capitale, opportunamente programmata dallo Stato e indirizzata al fine di accrescere il più possibile l’occupazione. Questa è la nostra linea” – spostano di 180 gradi la lancetta delle lotte operaie.
L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro continuarono in modo costante per tutti gli anni ‘80, passando dall’accordo infame con il gruppo FIAT (accordo che sancì una delle peggiori sconfitte sindacali dal dopoguerra) al decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984, firmato da CISL e UIL (con il sostanziale immobilismo della CGIL) che sancì il taglio del meccanismo di adeguamento automatico del potere d’acquisto dei salari, chiamato “scala mobile”, che sostanzialmente modificava in automatico i salari in funzione degli aumenti dei prezzi. Ai lavoratori venne imposta la rinuncia a quattro scatti di adeguamento salariale rispetto a quanto dovuto per l’inflazione passata.
Questo accordo fu il primo, timido passo di quel processo di “concertazione sociale” che, con alterne e anche drammatiche vicende, avrebbe segnato i successivi sviluppi del nostro sistema di relazioni industriali.
Il 12 giugno del 1990 viene emanata, con accordo fra tutte le parti, la legge antisciopero 146/90 che disciplinerà gli scioperi in quelli che verranno identificati come “servizi essenziali”, dando un ulteriore colpo alla capacità di lotta sindacale.
In questo clima la Confindustria si sente libera e nel 1991 disdetta “l’accordo sulla scala mobile”. Per la borghesia abolire la Scala Mobile ha anche un valore simbolico, ovvero chiudere col decennio delle lotte operaie innescato dall’Autunno Caldo del 1968-69.
Il 31 luglio 1992 i vertici di CGIL, CISL e UIL, il governo e la Confindustria firmano i primi famigerati accordi sulla moderazione salariale e aboliscono la Scala Mobile dei salari. L’anno seguente, il 23 luglio 1993, un altro accordo altrettanto peggiorativo fa da apripista agli attacchi dei decenni successivi. Dal 1992 la Concertazione fra le parti sociali sostituisce definitivamente la trattativa sindacale, la “compatibilità” della spesa diventa cardine essenziale di ogni “concertazione”, rendendo il sindacato attore essenziale dell’accumulazione capitalistica e decretando la fine della reale lotta sindacale.
Con gli accordi del ‘92 e ‘93 si dà anche un duro colpo alla democrazia operaia, abolendo i Consigli di Fabbrica e sostituendoli con le Rappresentanza Sindacali Unitarie di emanazione sindacale.
Se oggi i lavoratori italiani sono tra quelli coi salari più bassi, la precarietà più diffusa ed il sistema pensionistico peggiore dell’Europa occidentale, quello è stato il punto di partenza. Da decenni ormai gli scioperi generali sono una semplice parata, ridotti a poche ore, imbrigliati da leggi e leggine che sostanzialmente ne vanificano la lotta.
Il sindacato “concertativo” ha cambiato pelle diventando un’agenzia di servizi e di tutele individuali.
Da tanti anni i numerosissimi attacchi alle condizioni di vita e di lavoro perpetrati da Governo e padronato non hanno avuto nessuna risposta adeguata: dalla riforma del sistema pensionistico e previdenziale (da Dini alla Fornero), allo smantellamento dell’apparato produttivo, all’attacco ai diritti con l’abolizione dell’articolo 18 della legge 300/70, al peggioramento continuo delle norme contrattuali imposte dal padronato.
La situazione in Italia è paradossale, se si pensa che dopo le intese sulla compatibilità fra crescita salariale e spesa energetica, il capo del maggiore sindacato minaccia lo sciopericchio generale sulla “delega fiscale”; mentre la presidente del primo Governo guidato dal partito erede della tradizione fascista ha l’arroganza di bacchettare il sindacato, parlando dal pulpito del congresso CGIL e decretando il de profundis al “salario minimo”, dopo avere seppellito il pur esiguo contributo all’uscita dalla povertà chiamato “reddito di cittadinanza”.
Sindacato immobile anche davanti al taglio dei fondi per l’istruzione pubblica e per il sistema sanitario nazionale.
Negli ultimi mesi i lavoratori oltre che in Francia si sono sollevati dalla Spagna al Portogallo, alla Grecia al Regno Unito e in modo eclatante in Germania. In Italia la politica concertativa dei maggiori sindacati ha portato all’abulia collettiva, alla sfiducia nella lotta e nel cambiamento, al rinchiudersi nel privato disertando l’agorà pubblica e il confronto.
Il mondo del lavoro è ormai assente dall’agenda politica nazionale. Gravi e imperdonabili sono le responsabilità da attribuire ai dirigenti sindacali da Lama a Trentin, passando da Cofferati alla Camusso, per finire con l’ondivago Landini.