«Negli ultimi anni si sono verificate perdite (economiche e di vite umane N.d.R.) crescenti dovute alle inondazioni di acqua dolce associate agli uragani avvenuti negli Stati Uniti». È l’incipit di una nuova ricerca pubblicata su Environmental Research Communications. Il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani rappresentano due sfide da affrontare con urgenza, pena il superamento di limiti ecologici che comporterebbero gravi conseguenze per l’ecosistema terreste. Attraverso l’assorbimento di calore e CO2, i polmoni blu della Terra mitigano gli effetti del riscaldamento globale. Al contempo però, come afferma lo studio “Impatto delle attività antropiche sui mari: le conseguenze dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera e l’acidificazione degli oceani” dell’Università degli Studi di Trieste «Gli effetti combinati dell’aumento della temperatura, della diminuzione dell’ossigeno e dell’acidificazione possono avere effetti negativi sullo sviluppo degli organismi acquatici e sulle risorse utilizzate dall’uomo». Oceani più caldi implicano anche eventi meteo estremi più forti e più frequenti. La relazione scientifica dell’Università di Maynooth, in Irlanda, analizza la correlazione tra l’aumento della temperatura della superficie del mare e l’incremento della frequenza e dell’intensità dei cicloni tropicali nel Nord dell’Oceano Atlantico.
Oceani più caldi di un 1°C: le conseguenze
Nel 2022 la rivista scientifica Advances in Atmospheric Science pubblicò una ricerca secondo la quale a partire dagli anni ’50 la temperatura degli oceani ha subito un costante e preoccupante aumento con gravi ripercussioni sull’ecosistema marino e sull’atmosfera. Oltre alla riduzione della biodiversità marina e al correlato rischio economico per le comunità che traggono sostentamento dalla pesca, oceani più caldi comportano un’alterazione del ciclo idrologico. Il recente studio redatto dal Centro di ricerca sul clima ICARUS della Maynooth University, in collaborazione con il National Oceanography Centre del Regno Unito, conferma tutto ciò e offre una più ampia analisi sull’associazione tra l’aumento delle temperature oceaniche e l’amplificarsi degli eventi meteo estremi.
“The relationship between sea surface temperature anomalies, wind and translation speed and North Atlantic tropical cyclone rainfall over ocean and land” è l’indagine scientifica realizzata da un team di ricercatori guidati dalla dottoressa Samantha Hallam. Dalle analisi di un set di dati riguardanti il periodo 1998-2017 si evince che oceani più caldi di 1°C implicano un incremento del 40% delle piogge causate dai cicloni (TCP) e del 140% delle precipitazioni totali che si abbattono sulla terraferma. Percentuali spaventose che evidenziano ancora di più il pericolo relativo alle sempre più frequenti inondazioni.
La ricerca della Maynooth University traccia inoltre una netta differenza tra le precipitazioni dei cicloni tropicali che si verificano negli oceani e quelle che raggiungono la terraferma. Secondo i ricercatori «Poiché i cicloni tropicali trascorrono la maggior parte del loro tempo sull’oceano, gli studi che non separano la risposta terrestre da quella oceanica possono mascherare gli effetti del tasso TCP sulla terraferma, importante per comprendere il rischio di inondazioni». Un rischio che negli ultimi anni si è trasformato in certezza. Proprio nel 2017, ultimo anno preso in considerazione dallo studio, l’uragano Harvey devastò il Texas, la Louisiana e il Mississipi causando più di 100 miliardi di dollari di danni dovuti principalmente alle inondazioni.
Eventi meteo estremi: un rischio globale
Ike, Irene, Sandy, Irma, Harvey, Florence, Imelda, Ida. Otto uragani atlantici che in appena tredici anni hanno causato migliaia di vittime e danni economici per centinaia di miliardi di dollari. Eppure, nonostante i numerosi studi che da anni attestano il collegamento tra i cambiamenti climatici e i cicloni tropicali e che hanno previsto un aumento delle piogge causato dall’incremento delle temperature, gli Stati Uniti risultano essere ancora impreparati nella prevenzione del rischio di inondazioni.
Gli eventi meteo estremi, esacerbati dalla crisi climatica, non preoccupano solo gli USA. Per la World Meteorological Organization, negli ultimi cinquanta anni i disastri causati dai fenomeni meteorologici, climatici o idrici anomali sono aumentati di cinque volte. A confermarlo il “WMO Atlas of Mortality and Economic Losses from Weather, Climate and Water Extremes” secondo cui dal 1970 al 2019 «sono stati segnalati più di 11.000 disastri attribuiti a questi pericoli a livello globale, con poco più di 2 milioni di morti e 3,64 trilioni di dollari di perdite». Dal 2019 ad oggi le anomalie climatiche hanno conosciuto un incremento esponenziale senza precedenti. Nel 2020 l’Osservatorio “Città Clima” di Legambiente segnalava un aumento dei fenomeni meteorologici intensi riguardanti l’Italia. Una crescita che ha raggiunto il suo picco nei primi 10 mesi del 2022, fase in cui è stato registrato un incremento del 27% rispetto allo stesso periodo del 2021. In poco più di 300 giorni nel Bel paese sono stati registrati 254 fenomeni meteorologici estremi. Un trend che va avanti da almeno 13 anni secondo Legambiente: «Dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono verificati in Italia 1.503 eventi estremi con 780 comuni colpiti e 279 vittime. Tra le regioni più colpite: Sicilia (175 eventi estremi), Lombardia (166), Lazio (136), Puglia (112), Emilia-Romagna (111), Toscana (107) e Veneto (101)».
L’enorme mole di dati nazionali e internazionali sottolineano ancora una volta la necessità di un cambio di passo nella lotta alla crisi climatica e nella prevenzione dei rischi, migliore arma contro l’aumento degli eventi meteo estremi. L’adozione di un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici potrebbe infatti far risparmiare alle casse dello Stato il 75% delle risorse economiche destinate alla riparazione dei danni post eventi estremi e soprattutto salvare la vita di molte persone.
Marco Pisano