Le aziende pagano attestati e “marchi di sostenibilità”, pur essendo un pericolo per gli ecosistemi, gli equilibri ecologici e la difesa dell’ambiente. A dirlo è un’inchiesta dell’Espresso1 eseguita in collaborazione con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e IrpiMedia sul greenwashing e il commercio dei marchi green.
L’inchiesta, chiamata Deforestation Inc (Deforestazione spa), coordinata dall’Icij, ha fatto emergere centinaia di storie di soldi, scandali ambientali e carte truccate. Per mesi 140 cronisti di 40 testate internazionali, tra cui L’Espresso e il sito investigativo IrpiMedia (in esclusiva per l’Italia), hanno esaminato i dati sulle importazioni di legname, i registri delle ispezioni, i verbali delle violazioni ambientali e i dossier della magistratura sul business dello sfruttamento dei boschi e delle foreste in oltre 50 Stati, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe alla Nuova Zelanda.
L’inchiesta ha identificato 48 società di certificazione che hanno rilasciato attestati di sostenibilità ambientale a imprese che erano già accusate di aver devastato riserve naturali e oasi verdi, falsificato permessi e organizzato commerci illegali di legno e prodotti derivati. I documenti raccolti mostrano che negli ultimi 25 anni, dal 1998 all’inizio del 2023, almeno 347 aziende del settore (tra Canada, Brasile e Cile) del legname hanno ottenuto certificazioni ecologiche anche se erano state denunciate pubblicamente, per gravi violazioni ambientali, da autorità locali, grandi organizzazioni ecologiste e spesso anche da agenzie statali o condannate per attività distruttive delle foreste. Almeno 50 di queste società hanno potuto vendere prodotti in legno con le “etichette verdi di sostenibilità” perfino dopo essere state sanzionate o condannate nei processi.
Al centro dell’inchiesta c’è il sistema delle “certificazioni di sostenibilità”, i famosi “marchi green” sporchi del nero dell’impatto ambientale, della desertificazione e del disboscamento, ma che permettono con “etichette verdi” di vendere prodotti ricavati dal legname, dai mobili alla carta, dai pannolini alle bare, rassicurando i consumatori. Ottenere un “attestato di sostenibilità ecologica” è una scelta volontaria delle aziende, che in questi anni di crisi climatica e disastri ambientali si è rivelato fondamentale – come sottolinea l’inchiesta – per pubblicizzare i prodotti, per mostrare che si rispetta la Natura, le leggi sul lavoro, i diritti umani, i regolamenti e le sanzioni internazionali. Anche se non obbligatorie, le “certificazioni green” private sono ormai considerate necessarie, per ragioni commerciali, da molte delle imprese che producono, utilizzano e vendono legname o prodotti agricoli collegati ad attività di disboscamento: una vera e propria operazione di greenwashing. La realtà dei fatti resta molto lontana dalle rassicurazioni ambientali diffuse dalle industrie interessate. Nel 2021 le agenzie per la tutela dei consumatori del Regno Unito e dell’Olanda hanno esaminato centinaia di siti aziendali e hanno stabilito che il 40% delle dichiarazioni di eco-compatibilità è in grado di «ingannare i consumatori». Un comitato pubblico australiano ha avviato una ricerca dello stesso tipo nell’autunno scorso. Il risultato è che molte “etichette verdi” ingannano il pubblico, mentre le foreste continuano a scomparire. Secondo i dati raccolti dalla Fao, tra il 1990 e il 2020 il nostro pianeta ha perso 420 milioni di ettari di boschi, una superficie più grande di tutta l’Unione Europea.
I “marchi green” sono diventati una vera e propria industria, in continua crescita, che a livello mondiale vale 10 miliardi di euro all’anno, ma soffre di due problemi strutturali:
- Le certificazioni vengono rilasciate da società private, selezionate dalle stesse aziende interessate in cui il controllato sceglie e paga il suo controllore. Se la verifica è negativa, si può cambiare il certificatore, magari pagandolo di più. Al vertice di questo sistema di autoregolamentazione delle aziende ci sono alcune organizzazioni internazionali, in particolare il Forest Stewardship Council (Fsc), il Programme for the Endorsement of Forest Certification (Pefc) e la Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), ovvero istituzioni private, create a partire dagli anni Novanta su pressione dei movimenti ecologisti, con l’obiettivo di fermare la deforestazione. Questi organismi hanno un ruolo di garanzia e supervisione, ma in realtà la reputazione di entrambe le organizzazioni è stata messa in dubbio, con accuse di scarsa trasparenza nelle verifiche ambientali, sequenze di scandali che hanno coinvolto aziende certificate, accuse di conflitti d’interesse e mancanza di controlli sulle società accreditate per le revisioni e ispezioni ecologiche.
- le società di certificazione (e i loro dirigenti) vengono chiamate raramente a rispondere delle omissioni o addirittura delle false attestazioni contenute nei loro rapporti di sostenibilità, redatti per conto dei clienti.
Anche tra gli esperti di controlli ambientali c’è chi critica l’efficacia delle certificazioni, come Grégoire Jacob che, intervistato da Radio France, partner del consorzio Icij, ha dichiarato: «È tutto il sistema su cui facciamo affidamento, quello delle certificazioni in generale, che non funziona. Siamo portati a credere che avremo dei prodotti più rispettosi dell’ambiente. A volte è vero, ma a volte è falso».
L’inchiesta Deforestation Inc denuncia quindi la grande truffa dei marchi green fondata sul marketing e sulla strumentalizzazione della sostenibilità. Intanto la distruzione delle aree verdi continua a ritmi folli: l’agricoltura intensiva, la costruzione di strade e palazzi, lo sfruttamento industriale delle foreste sono tra le principali cause del cambiamento climatico e, secondo importanti studi scientifici, sono responsabili di oltre il 10% delle emissioni mondiali dei gas serra che provocano il riscaldamento globale. L’abbattimento degli alberi provoca anche frane, inondazioni, perdita di biodiversità e scomparsa della fauna selvatica.
La Commissione europea sta elaborando una nuova direttiva contro il greenwashing e, secondo una bozza della proposta, gli Stati Ue verrebbero impegnati a imporre «sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive» alle aziende che pubblicizzano prodotti con qualità ambientali non dimostrabili.