Il governo italiano e la sua agenzia di credito all’esportazione SACE si rimangiano gli impegni presi alla COP26 di Glasgow: continueranno a finanziare progetti di carbone, petrolio e gas all’estero almeno fino al 2028. Le politiche di implementazione dell’Italia sono le più inadeguate tra quelle adottate fino a questo momento. Un pessimo segnale, che è arrivato nello stesso in giorni in cui il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha pubblicato la sintesi finale del sesto rapporto sulla crisi climatica, da cui emerge che l’Italia è tra i paesi più vulnerabili. Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, afferma la necessità di cessare “ogni licenza o finanziamento di nuovi impianti petroliferi e di gas”, proprio il contrario di quanto sta facendo SACE.

A novembre 2021, in occasione della Conferenza sul clima di Glasgow, 34 paesi e cinque istituzioni finanziarie pubbliche hanno firmato un impegno congiunto (“Dichiarazione di Glasgow”) per porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali ai combustibili fossili entro il 31 dicembre 2022. L’Italia, che condivideva con il Regno Unito la presidenza della COP26, aderì solo all’ultimo minuto alla Dichiarazione di Glasgow.

Per comprendere la portata dei sussidi italiani al comparto estrattivo, vale la pena ricordare che SACE, controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, si colloca al sesto posto globale e al primo in Europa tra i finanziatori pubblici dell’industria fossile. Tra il 2016 e il 2021, SACE ha emesso garanzie (assicurazioni sui progetti o garanzie sui prestiti per la realizzazione dei progetti) per i settori del petrolio e del gas pari a 13,7 miliardi di euro, che rappresentano una fetta importante dei cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi” italiani.

Per quanto la Dichiarazione di Glasgow possa considerarsi un passaggio chiave nella lotta alla crisi climatica, si tratta pur sempre di un impegno volontario e su base nazionale, comprese le sue politiche di implementazione. Sette tra i principali paesi sostenitori dell’industria fossile attraverso soldi pubblici hanno adottato politiche che rispettano ampiamente la promessa fatta a Glasgow: Regno Unito, Francia, Canada, Finlandia, Svezia, Danimarca e Nuova Zelanda. Altri, come Paesi Bassi, Spagna e Belgio, hanno implementato la Dichiarazione con politiche deboli, che lasciano ampi margini di supporto finanziario ai settori del petrolio e del gas.

Come ReCommon denunciava già a novembre 2021, l’iniziativa era lungi dall’essere perfetta, con una serie di scappatoie che avrebbero fatto gola al Sistema-Italia, che si basa sul triangolo finanza privata-industria fossile-finanza pubblica. Così è puntualmente avvenuto.

Il primo fatto grave da evidenziare è che l’impegno italiano sia stato adottato a gennaio 2023, ma reso pubblico solo ieri sera dai canali social della coalizione internazionale Export Finance for Future (E3F) di cui l’Italia fa parte, non da quelli ufficiali di SACE o del ministero dell’Economia e delle Finanze. Tutto ciò rappresenta l’ennesima conferma che, quando si tratta di istituzioni di finanza pubblica italiane, la trasparenza è la prima vittima. VEDI: https://www.linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:7043634866483032064/

La seconda vittima della policy italiana è, ovviamente, il clima, a partire da quanto concerne il gas fossile. Innanzitutto è definito combustibile di transizione, strategico per la sicurezza energetica italiana. In seconda battuta, i progetti per esplorazione e produzione di gas potranno essere finanziati fino a gennaio 2026, e le deroghe presenti potrebbero posticipare la data ultima ancora più avanti. Per i progetti di trasporto e stoccaggio, invece, la data ultima non è proprio menzionata perché deve essere “ancora definita”. Una formula che sembra voler dire “per sempre”.

Per rendersi conto di quanto il mantra della sicurezza energetica sia vuoto, si può riportare un esempio: con questa policy, alcuni progetti potrebbero richiedere il supporto finanziario di SACE addirittura nel 2025. Le multinazionali proponenti, con il supporto di quelle costruttrici, potrebbero ultimarli nel 2030 e il gas prodotto arrivare in Italia dal 2031. Risulta difficile credere che otto anni sia un lasso di tempo emergenziale tanto da invocare la “sicurezza energetica”. Senza contare che solo una minima parte del gas prodotto arriverà in Italia, come dimostrato dal progetto Coral South FLNG di Eni: supportato finanziariamente da SACE, la prima nave gasiera proveniente dal progetto mozambicano è finita a Bilbao e non certo in Italia.

«Sembra evidente che, dietro il mantra della sicurezza energetica, gli interessi tutelati siano quelli delle multinazionali energetiche, degli istituti di credito e delle agenzie di credito all’esportazione come SACE», afferma Simone Ogno di ReCommon.

Il più delle volte, le multinazionali e, di conseguenza, SACE, si inseriscono in contesti attraversati da forti instabilità socio-politiche, acuendole, oppure operano a stretto contatto con i governi che le alimentano. In entrambi i casi l’industria del petrolio e del gas ha un ruolo da protagonista, come nel caso della Federazione russa, del Mozambico e dell’Egitto.

«Se non bastasse la posizione sul gas, troviamo anche il beneplacito a tecnologie sperimentali e già fallimentari come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, per non parlare anche delle deroghe previste per le date ultime di finanziamento a progetti petroliferi», aggiunge Ogno. «Ci aspettavamo una politica di implementazione scadente, ma così è come non averla del tutto», conclude.