Fin dagli anni ’70 le donne sono state protagoniste dell’immigrazione dall’estero e ancora oggi risultano maggioritarie tra i residenti stranieri, attive nell’associazionismo e nella partecipazione sociale e fondamentali al welfare del Paese. Eppure, restano gravemente penalizzate nel lavoro e nella società e su di esse pesano discriminazioni dovute alla differenza di genere e cittadinanza che ne ostacolano l’affermazione personale e il benessere socio-economico. Il libro “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità” è il primo studio socio-statistico del Centro Studi e Ricerche IDOS e dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” ad analizzare il fenomeno in maniera organica.
La storia dell’immigrazione femminile in Italia, con i relativi dati, parla di donne dinamiche, autonome nei loro percorsi e protagoniste delle loro vite, ma marginalizzate e schiacciate su posizioni subalterne da modelli di organizzazione sociale ed economica gerarchizzati per genere e cittadinanza, che le espongono a meccanismi di discriminazione. Emblematica di tale situazione è la loro condizione occupazionale, che da decenni resta ingabbiata in ambiti e ruoli non solo svantaggiati, ma anche rigidamente predeterminati, che ne riducono sia le opportunità occupazionali sia la mobilità sociale e la visibilità nel mondo del lavoro e nella vita collettiva.
Sebbene tra gli stranieri residenti in Italia a fine 2021 le donne siano il 50,9% (quasi 2,6 milioni), esse scendono al 42% tra gli occupati (949.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati (199.000). Inoltre, il loro tasso di occupazione (45,4%) è in assoluto il più basso, rispetto sia agli occupati complessivi (58,2%), sia alle donne italiane (49,9%), sia agli uomini stranieri (71,7%), dai quali sono distanziate di ben 26,3 punti percentuali (tra gli italiani il divario di genere è di 16,7 punti). Una sottorappresentanza statistica, questa delle donne straniere nei dati sull’occupazione regolare, che rimanda anche a un loro più ampio coinvolgimento nel lavoro nero.
Tra le lavoratrici regolari, quasi 9 su 10 sono occupate nei servizi (87,1%) e la metà si ripartisce in appena 3 professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e impiegate nelle pulizie di uffici ed esercizi commerciali), a fronte di 12 tra tutti gli stranieri e 45 tra gli italiani. Così, nonostante siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro coerente con i propri titoli: è infatti sovraistruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Inoltre, esse sono più esposte al part-time involontario, che svolgono nel 30,6% dei casi, ossia in misura quasi tripla degli uomini stranieri (11,6%) e quasi doppia delle italiane (16,5%). Di riflesso, percepiscono una retribuzione media mensile di appena 897 euro al mese (-29% rispetto alle donne italiane e -27% rispetto agli uomini stranieri), una condizione che colloca la metà delle immigrate nel 20% più povero della popolazione. In particolare, il crescente inserimento occupazionale delle donne italiane ha avuto come contropartita la diffusa delega alle straniere del lavoro domestico e di cura: un compito che continua a ricadere primariamente sulle donne e che, per le immigrate, si traduce in un accesso penalizzante al lavoro, che le confina in ruoli di accudimento e, al tempo stesso, sacrifica la loro dimensione familiare e affettiva.
Nel comparto domestico il 70% degli addetti è straniero e tra questi l’85% è una donna. Anche a causa della massiccia concentrazione nella collaborazione domestica e familiare, durante la pandemia le straniere sono state più esposte ai contagi da Covid-19 sul posto di lavoro, i quali le hanno riguardate in ben 8 casi ogni 10 denunciati da lavoratori stranieri nel 2020 e 2021. A favorire questa alta morbilità, oltre al più difficile accesso degli stranieri ai vaccini (soprattutto se privi di tessera sanitaria), c’è stato il ritardo nell’estensione della vaccinazione prioritaria ai lavoratori domestici conviventi e ai caregiver di disabili gravi. E le assistenti familiari sono anche rimaste escluse dalle misure di sostegno (cassa integrazione in deroga, blocco dei licenziamenti, bonus una tantum) o ne hanno usufruito in ritardo (“bonus badanti”).
D’altra parte, la condizione di madre, soprattutto se lasciata sola nei compiti di cura e genitorialità, acuisce l’esclusione dal lavoro anche e soprattutto tra le immigrate, evidenziando una più forte collisione tra occupazione e impegno familiare: le madri straniere di 25-49 anni con figli in età prescolare hanno un tasso di occupazione (46,4%) decisamente più basso di quelle senza figli (77,9%). In sintesi, se nel complesso i lavoratori stranieri sono massicciamente incanalati e mantenuti in posizioni lavorative subalterne, tra di loro le donne sono ulteriormente penalizzate, in quanto incanalate in attività essenziali (oltre al lavoro di cura, anche il lavoro in agricoltura, i servizi presso uffici, alberghi e ristoranti) ma poco riconosciute nel loro valore sociale ed economico, poco tutelate e caratterizzate da maggiore sfruttamento e lavoro nero (nel ramo domestico si stima che gli impieghi irregolari superino quelli con contratto e in agricoltura che ammontino ad oltre 50mila, a fronte di 31.000 straniere regolari).
Così, sebbene le donne di origine immigrata –di prima e di nuova generazione – esprimano un protagonismo autonomo dal mondo maschile, si muovano come soggetti consapevoli nei flussi migratori, nel mercato del lavoro e nella società (dove si impegnano con associazionismo, nuove forme di attivismo, produzioni artistiche e letterarie), esse restano bloccate tra una forte volontà di affermazione personale e la cronica esposizione a condizioni di vulnerabilità. Pagano così condizionamenti culturali tanto in famiglia quanto nella società – di partenza e di arrivo – che le relegano a ruoli di subordine e di minorità (le musulmane, ad esempio, si sentono più discriminate degli uomini nel lavoro e hanno un tasso di occupazione più basso quando indossano il velo).
“Si impone, quindi, un ripensamento radicale delle politiche che – si sottolinea a conclusione del Rapporto– superando l’approccio neutro con cui si guarda alle migrazioni, integri la prospettiva intersezionale nelle strategie di intervento e metta al centro la dimensione di genere, anche nel monitoraggio e nella valutazione degli interventi. Diversamente, pur essendo presenti, attive ed essenziali al Paese, le donne straniere continueranno a essere una “presenza assente” dalle politiche migratorie, di asilo e di welfare, con grave perdita di diritti e opportunità per l’intera società italiana”.
Qui una scheda di sintesi de “Le migrazioni femminili in Italia”: https://www.dossierimmigrazione.it/wp-content/uploads/2023/02/Le-migrazioni-femminili-in-Italia-SCHEDA-SINTESI.pdf.