Per diverso tempo quando si parlava di Israele molti a sinistra distinguevano tra lo Stato, quindi l’intera comunità di cittadini che lo componevano e il governo di turno. Si diceva un conto sono le politiche dell’esecutivo vessatorie e oppressive nei confronti dei palestinesi, un altro la società israeliana con le sue dinamiche politiche e sociali. E in effetti al di là del fondamentale “peccato originale” legato alla nascita di uno Stato basato sostanzialmente su un mostriciattolo politico, cioè una “democrazia etnica”, un ossimoro, dove i diritti per i palestinesi erano in buona parte negati, al di là della presenza formale nel Parlamento, fino a metà degli anni Novanta nel Paese era presente, pur con tutti i limiti e le ambiguità, un movimento per la pace che periodicamente scendeva in piazza. Mio zio Giacomo, che era immigrato dopo le leggi razziste fasciste e successivamente aveva fondato uno dei primi kibbutz vicino a Netanya, ne faceva parte.
Ma uno Stato nato su un’ingiustizia non poteva che andare inevitabilmente verso un processo ulteriormente involutivo. Tralascio anche per ragioni di spazio, un’analisi sui limiti e gli errori, anche tragici, fatti dalla resistenza palestinese nel corso dei decenni, a partire dagli attentati contro i civili, nonché una disamina dei gruppi dirigenti spesso non all’altezza del compito, per usare un eufemismo, fino alla situazione attuale.
Ma la questione principale è che il governo di estrema destra ora al potere non è che la ovvia conclusione di un processo che viene da lontano, un processo in cui comunque al di là del tipo di partiti componenti l’esecutivo, quindi anche quelli di “sinistra”, i palestinesi hanno dovuto subire discriminazioni e apartheid.
Per cui le manifestazioni che da alcune settimane attraversano le strade israeliane contro la “Riforma della giustizia”, cioè la volontà di togliere alla Corte Suprema il potere di controllo a favore del governo non sono la dimostrazione di una società viva, sensibile alla democrazia, ma viceversa esplicitano come in questi anni il processo di fascistizzazione del corpo sociale israeliano sia avvenuto con il quasi completo consenso della maggioranza degli israeliani. Hanno assistito conniventi allo scempio che avveniva nel territori palestinesi, con le violenze delle milizie dei coloni, le sistematiche esecuzioni quotidiane dei militari anche contro minorenni, magari mentre si recano la mattina a scuola, fino ai pogrom di cui si è avuta ennesima manifestazione pochi giorni fa: tutto questo senza nessuna reazione, anzi con un ampio consenso.
Le stesse proteste di questi giorni, nella maggior parte dei casi, si sono guardate bene da indirizzarsi anche contro il recente pogrom. E la Corte Suprema, la cui autonomia è al centro delle rivendicazioni, non ha fatto nulla in questi anni per fermare l’annessione dei vari territori.
Oggi arriverà in Italia Netanyahu accolto dai suo degni compari, anzi camerati, del governo Meloni. In questo caso, a quanto sembra, ci saranno proteste da parte di settori delle comunità israelitiche, cioè quelle stesse comunità che, tolte alcune note eccezioni individuali, hanno sempre avuto un atteggiamento fideistico verso Israele, non alzando mai un dito verso il contesto sopra descritto.
Nel marzo del 2019 mi aggregai a una delegazione dell’associazione antifascista “Madri per Roma città aperta”, ospite del Fronte Popolare, visita in cui verificammo la gravità della situazione e la nascita di decine di muri con i palestinesi chiusi in tanti bantustan. Giungemmo alla conclusione che solo un Mandela palestinese avrebbe potuto dare una sterzata e avviare un processo di giustizia e pace di fronte a un conflitto pluridecennale.
Sono passati quattro anni e non si vede nessuno spiraglio, con una comunità internazionale complice e silente.