Eduardo Mendúa, tra i leader della comunità di Cofán Dureno, è stato assassinato lo scorso 26 febbraio, con 12 colpi di arma da fuoco. Si trovava nel giardino di casa sua, nella comunità di A’i Cofán Dureno, provincia di Sucumbíos, regione amazzonica nel nord ovest del Paese. Si tratta dell’ennesimo omicidio macchiato dagli interessi petroliferi che da più di 50 anni stravolgono gli equilibri e la vita delle popolazioni indigene che vivono quelle terre. Mendúa rientrava da una riunione con la CONAIE, la più grande organizzazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador, della quale era responsabile delle comunicazioni internazionali.
“Dovranno passare sul nostro cadavere, perché per noi Cofán l’estrazione di petrolio è essa stessa sinonimo di morte”.
Eduardo Mendúa
La difesa dell’Amazzonia perde uno dei suoi volti più rappresentativi: Eduardo, insieme ad altri attivisti, si era fortemente opposto alle attività della compagnia petrolifera PetroEcuador, di proprietà statale, che voleva installare altri 30 pozzi petroliferi nella comunità di Cofán Dureno, nei pressi di Lago Agrio. L’area nella quale le operazioni dovrebbero essere portate avanti è tuttora foresta vergine incontaminata: l’estrattivismo avrebbe quindi conseguenze ambientali devastanti. La concessione era stata approvata dallo stato, ma non da parte delle comunità, che vi si erano fortemente opposte anche in quanto mai consultate.
L’estrattivismo porta contaminazione, morte e divisione interna alle comunità. Questo è il messaggio che arriva da gran parte delle testimonianze rilasciate dai membri di Dureno, nella quale PetroEcuador era già entrata in passato, provocando scontri e conflitto e dividendo le famiglie dall’interno. Sono infatti le stesse imprese petrolifere a rendersi conto di quanto forte sia una popolazione unita da una causa comune: ciò è vero specialmente nel contesto ecuadoriano, dove le mobilitazioni delle nazionalità indigene – i cosiddetti paros – sono da sempre in grado di ottenere attenzione mediatica a livello internazionale, arrivando spesso a paralizzare l’intero Paese. Inoltre, i numerosi eventi e workshop organizzati dalle ONG ambientaliste attive nelle zone di estrazione, hanno reso molte comunità autonome ed indipendenti nel difendersi dai frequenti tentativi di raggiro portati avanti dalle istituzioni.
A fronte di questa situazione, la strategia del governo è quindi più subdola: facendo leva sull’altissimo tasso di povertà che caratterizza la regione (il 70% della popolazione delle regioni amazzoniche ecuadoriane si trova al di sotto della soglia di povertà estrema), promette sviluppo economico e sociale ai singoli membri delle comunità, corrompendoli offrendo ingenti somme di denaro. In questo modo, una volta ottenuto il lasciapassare, le imprese possono dimostrare di agire supportati dal consenso comunitario. Queste ultime, nel frattempo, si ritroveranno spaccate dall’interno, incapaci quindi di raggrupparsi e di formare un fronte comune.
Il conflitto a Dureno
La comunità di Cofán Dureno costituisce l’esempio perfetto per osservare come il paradigma d’azione sopra descritto venga applicato in pratica. Essa aveva già subito gli effetti dell’estrazione petrolifera: nel 1972, il cosiddetto “Blocco 57” era stato perforato in diversi punti e uno dei pozzi maggiori era stato aperto proprio nel territorio della comunità. Il pozzo venne chiuso nel 1992 e riaperto nel 2012, dopo negoziazioni alle quali la comunità, secondo una parte dei dirigenti, avrebbe preso parte e dato il consenso. Negli anni a seguire, durante il governo di Rafael Correa, la comunità venne ingrandita, con un progetto che prevedeva la costruzione di abitazioni provviste di energia elettrica: per realizzarlo, vennero utilizzati parte dei ricavi provenienti dall’estrazione del greggio.
Gli attriti che caratterizzano le due fazioni che compongono la comunità di Dureno sono quindi di vecchia data ed erano rimasti sopiti fino a metà dell’anno scorso, quando PetroEcuador aveva annunciato il piano di aprire tre grandi piattaforme nella zona della cosiddetta riserva di Dureno, area di foresta incontaminata, per un totale di 30 nuovi pozzi. In quell’occasione, la guardia indigena contraria all’estrazione, chiamata Erisun, si era attivata, bloccando la strada di accesso alla riserva e fermando i macchinari della compagnia petrolifera di stato. All’inizio di gennaio la tensione era aumentata esponenzialmente, sfociando in scontri aperti tra la resistenza comunitaria e le forze armate, causando vari feriti in entrambe le fazioni. In seguito agli eventi, il presidente della comunità, Silverio Criollo aveva denunciato come “sedicenti dirigenti avevano interrotto illegalmente lavori pubblici portati avanti dalla compagnia petrolifera”, intimando agli oppositori di “terminare immediatamente l’occupazione della strada”. Criollo, che rappresenta il fronte in favore dell’estrazione, sembra inoltre che avesse già firmato accordi con PetroEcuador in cambio di denaro, che avrebbe poi ridistribuito tra i suoi sostenitori nella comunità. Lo stesso Silverio afferma che Eduardo Mendúa, non si era mai recato agli incontri promossi dal governo per trovare un accordo comune sulle perforazioni. La data limite era la prima settimana di marzo: si pensa dunque che PetroEcuador abbia fatto pressione su Silverio affinché risolvesse i conflitti interni, garantendo la realizzazione delle 3 piattaforme.
E’ per le ragioni appena esposte che, quando gli viene chiesto di provare ad identificare le fonti del conflitto, Andrés Tapia, dirigente della CONFENIAE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Amazzonia), risponde senza esitare: “E’ importante capire che qui ciò che genera conflitto è solo ed esclusivamente la presenza di PetroEcuador nel territorio di Cofán Dureno. Nulla all’infuori di questo ha causato l’ostilità che ha portato alla morte di Eduardo.”.
Il petrolio nel contesto ecuadoriano
Nella storia dell’Amazzonia ecuadoriana, c’è un prima ed un dopo 1964. Questo è l’anno nel quale sono iniziate le esplorazioni sismiche da parte della compagnia statunitense Texaco (ora Chevron), che ha poi iniziato l’estrazione tre anni dopo. Le operazioni sono andate avanti per oltre 20 anni ed il risultato è la tra le più grandi catastrofi ambientali mai conosciute. I numeri sono impietosi, ma non rendono l’idea della gravità dell’accaduto: 60 miliardi di litri di acqua tossica riversata nella foresta e nei corsi d’acqua, 650 mila barili di greggio dispersi nell’ambiente e più di 800 “piscine” di petrolio di scarto abbandonate nell’ecosistema. La popolazione dei Cofán, prima di circa 4000 individui, era stata cacciata dalla sua terra e decimata. Altre due comunità indigene, i Tetete e i Sansahuari, sono state completamente annichilite dall’arrivo dei coloni e dalle malattie portate dalla contaminazione. Nel 1992, per evitare di pagare i danni di un passivo ambientale dalle proporzioni enormi e senza aver rimediato ai danni causati, la Chevron è fuggita dal Paese, lasciando tutti i gli impianti, la maggioranza dei quali obsoleti, a PetroEcuador, che continua l’estrazione del greggio ancora oggi.
Allo stesso tempo, la presidenza di Guillermo Lasso ha aumentato esponenzialmente la tensione sulle comunità indigene, dichiarando a più riprese di voler raddoppiare l’estrazione di petrolio a livello nazionale. Tutto ciò prevaricando sistematicamente quelli che sono i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione Ecuadoriana, così come i diritti delle popolazioni indigene. Tra questi troviamo anche il diritto ad essere consultati prima di poter iniziare qualsiasi tipo di lavoro nel loro territorio.
La lotta continua
Il giorno dopo l’omicidio di Mendúa, Leonidas Iza, presidente della CONAIE, ha rilasciato un comunicato dove si legge che si “considerano responsabili di questo delitto il governo e PetroEcuador” in quanto il conflitto con le imprese petrolifere nella comunità di Cofán Dureno è da sempre foraggiato da attori esterni alle comunità”, gli stessi attori che ne hanno causato l’esplosione. Anche il Presidente Guillermo Lasso ha espresso “solidarietà con la famiglia di Eduardo Mendúa e con la CONAIE”, assicurando che “questo crimine non rimarrà impunito” e aggiungendo che “le ricerche per consegnare alla giustizia i colpevoli continuano senza sosta”. Il paradosso è chiaro: la giustizia alla quale essi dovrebbero essere assicurati è con ogni probabilità la stessa che ha ordinato l’assassinio di Eduardo.
Oggi, di fronte all’ennesimo crimine di stato, è più che mai chiaro che la lotta di Eduardo continua. Molti dirigenti della comunità di Dureno insieme alla CONAIE e ad altre organizzazioni attive nelle regioni amazzoniche hanno espresso il loro definitivo rifiuto circa ogni tipo di operazione che PetroEcuador ha intenzione di portare avanti nel territorio. Pochi giorni fa, la guardia indigena ha confermato, attraverso un messaggio sui social, che la resistenza continuerà finchè PetroEcuador non avrà abbandonato definitivamente la comunità.
“E’ un ecocidio, se le compagnie petrolifere entrassero, la cultura Cofán si estinguerebbe. Sarebbe la fine di una cultura viva, e ciò non può accadere. Sarebbe un crimine di stato, lo stesso stato che ci sta uccidendo attraverso l’estrattivismo”
Eduardo Mendúa
Eduardo vive, la lotta continua.
Per approfondire:
- https://es.mongabay.com/2023/03/asesinato-de-eduardo-mendua-en-ecuador/
- https://www.pressenza.com/es/2023/03/ecuador-el-asesinato-de-eduardo-mendua-lider-indigena-y-ambientalista-sacude-al-pais/
- https://ilmanifesto.it/sicari-del-petrolio-in-ecuador-abbattuto-dirigente-indigeno
- https://www.democracynow.org/2023/2/28/headlines/ecuadorian_indigenous_leader_eduardo_mendua_assassinated_at_his_home