Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo parte dell’Introduzione dei curatori del volume “Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo” (Autori vari, Multimage-Firenze 2023, pp. 300)
Quando abbiamo programmato la serie di seminari sul “capitalismo nel terzo millennio” avevamo ben chiaro che il modello di produzione capitalistica avesse cambiato pelle e che il processo di trasformazione delle merci non potesse essere più definito secondo i parametri conosciuti nel sistema della fabbrica regolato dal “patto fordista”. Anche in Italia, con le grandi ristrutturazioni romitiane, enormi contingenti di forza-lavoro vennero esodati per far posto all’immissione di dosi massicce di automazioni del ciclo di produzione. Oltre agli incrementi considerevoli di produttività, il comando dell’impresa aveva ri-stabilizzato il regime distributivo della ricchezza riportandolo in equilibrio, secondo i canoni fattoriali della economia politica, rompendo così la conflittualità dell’autonomia operaia che avevo posto in essere una rigida indipendenza salariale.
Si imponeva, quindi, un processo di ristrutturazione-ristabilizzazione che sanciva la subalternità dei corpi del lavoro e il ripristino del comando dell’impresa. Ma non solo. Dopo l’ascesa retributiva negli anni tayloristici questo processo imperituro rappresentava il crinale da cui iniziava il versante di caduca del lavoro tangibile e del suo valore. Infatti, da lì in avanti, la dinamica salariale – come variabile indipendente della distribuzione capitalistica – comincia a perdere l’incidenza che veniva direttamente impressa nel sinallagma contrattuale dal movimento di lotta operaia. In luogo dell’affermazione di rapporti negoziali basati sulla crescita distributiva, generata dalla conflittualità della composizione lavoro-vivo, prendeva invece posto il “sistema concertativo” di una rappresentanza sindacale (sempre più appendice tecnica organica dell’impresa, basti pensare agli accordi negoziale sui fondi pensioni), nel quale i termini economici dei rinnovi contrattuali vengono predeterminati esclusivamente sulla base di un originale calcolo di mantenimento dei livelli del potere d’acquisto: dapprima, dal 93, calcolati sulla cosiddetta “inflazione programmata” governativa e, adesso, sulla base dell’indice-IPCA, adottato a seguito del “Patto della Fabbrica” siglato dalle “parti sociali” nel 2018, con il quale si fissano i rinnovi contrattuali al netto dei rincari dei costi energetici. Pertanto, de facto, possiamo dire che, chiusa la stagione degli automatismi contrattuali (disdetta della scala mobile) posti a salvaguardia dei salari contro l’inflazione, non vi sono più state vere relazioni sindacali, in cui fosse espressa nettamente una volontà negoziale in difesa degli interessi del lavoro subalterno, nemmeno in ragione di un recupero effettivo delle perdite salariali rispetto all’aumento del caro-vita.
Sulla “indicizzazione ponderata” al ribasso applicata ai rinnovi contrattuali, con la compiacente moderazione sindacale, va fatta risalire l’origine del percorso di depauperamento generale delle retribuzioni nel nostro paese, percorso d’impoverimenti al quale bisogna aggiungere quella sottrazione salariale indiretta, consumata a danno dei lavoratori, per effetto della dilazione estenuante dei tempi padronali nei rapporti relazionali, giacché alla mancata osservanza delle scadenze dei rinnovi non è previsto alcuna compensazione retroattiva né alcun minimo indennizzo, poiché i termini sono riconosciuti come ordinatori tra le parti rappresentative, rendendo caduca la perentorietà dell’adempimento alla scadenza dell’obbligazione.
È perlomeno da un buon trentennio che si assiste a questo processo di desalarizzazione e decontrattualizzazione del lavoro che, in uno con il restringimento degli spazi negoziali, entro cui trovare il punto di equilibrio delle compatibilità distributive della redditività economica dei fattori produttivi, ha generato parimenti quella precarietà diffusa socialmente insostenibile strutturando permanentemente la crisi del sistema capitalistico.
Quel che sopra abbiamo argomentato, sostanzialmente è la risultante della deregulation postfordista del rapporto di lavoro, ossia del processo di depotenziamento giuridico della contrattazione collettiva, la cui sfera giuridica generale, come abbiamo visto sempre più derogabile, si contrae per estendere la sfera normativa dei contratti integrativi aziendali e territoriale, spostando così gli effetti salariali prevalentemente dal piano verticale categoriale a quello orizzontale aziendalistico, adottando parametri retributivi premiali legati all’andamento congiunturale della singola azienda e, soprattutto, legati ai risultati individualizzati piuttosto che collettivi. Questo era l’obiettivo politico dichiarato della deregulation neoliberista, perseguito sin dai tempi di Reagan e della Thachter. Ovvero: la spaccatura trasversale sul piano sociale generale del reticolo di solidarietà della classe operaia. Questo passaggio era la condicio sine qua non del sistema neoliberista per imporre il nuovo corso della desalarizzazione del lavoro. Di converso, la forbice del benessere si è divaricata a dismisura, facendo sì che la concentrazione della ricchezza si addensasse in sempre meno mani con una competizione individualistica sempre più selvaggia e ristretta nel “gioco dell’ascensore” della mobilità sociale.
In altre parole, rompere questo accerchiamento ideologico corruttivo iniziato con la supply side economics, di cui in nome della competizione postmodernista sono stati intrisi anche gli apparati sindacali verticalizzati, oggi è una condizione necessaria se si pensa ancora di poter sottrarre la chiave dello sviluppo al capitale e riprendere il discorso sull’uguaglianza, immaginando una nuova stagione di lotte che solo un diverso sindacalismo sociale potrà riunificare oltre l’ideologia lavorista: «In un capitalismo che ha distrutto la forza politica della classe operaia – faceva osservare Christian Marazzi qualche anno addietro su il Manifesto (19 settembre 2014) -, i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie. Dobbiamo quindi immaginare una lotta di classe che si faccia carico della sofferenza alimentata dalla crescita delle diseguaglianze».
Insomma, per sintetizzare rispetto all’economia della nostra curatela del presente lavoro, rispetto all’aurea resistenza dell’operaio massa, con le lotte sviluppatesi nel corso dell’epopea fordista della produzione industriale, abbiamo voluto approfondire il complesso dei temi emersi dalla crisi di quella composizione di classe e su come si fosse ridefinito il conflitto sociale, unitamente alla omologazione di un movimento operaio trasfigurato dalla sua rappresentanza tradizionale, sia politica che sindacale (eccezion fatta per le poche isole resistenziali – come oggi è da considerare l’ammirevole esperienza degli operai della GKN – che ancora tentano di ripensare ad altre forme di soggettivazione di autonomia di classe oltre la centralità operaia). Quello che traspare dalla direzione intrapresa negli anni settanta colla autonomia del politico, assunta dal movimento operaio storico come orizzonte prospettico statalista, ci porta di filato all’accettazione del “pensiero unico” incarnato dal nuovo spirito capitalistico. Cosicché la missione dell’operaio-massa di compiere quel salto storico-politico (cioè quello di portare il lavoro-vivo dalla catena di montaggio all’autovalorizzazione sociale) è rimasto politicamente irrisolto. Non è tanto la questione concreta della separatezza del capitale-fisso dalla produzione su cui vogliamo intervenire, poiché questa -potremmo dire – è stata già anticipata e risolta nei fatti dalla cooperazione sociale. Quel che rimasto fin qui sospeso è un passaggio fondamentale, quello di riuscire a dare forma politica alla soggettivazione del lavoro-vivo, dentro un processo costituente capace di mettere in comune ciò che sul piano della concrezione storica non ha più ragion d’essere separato. In sostanza l’unificazione di tutto il lavoro umano è un questione politica che va definita in una processualità di liberazione dalla sussunzione capitalistica, mediante la riappropriazione del sapere comune frutto della messa a setaccio del marxiano general intellect. Questa concrezione, nel corso di quel ciclo conflittuale animato dall’operaio-massa socializzato, sembrava una delle determinazione offerte dal campo delle possibilità, per fuoriuscire dalla crisi del sistema tangibile della produzione fordista.
Mai come prima d’allora s’intravedevano le opportunità di un inveramento comunistico senza più transizioni socialistezzanti: quella soggettivazione incarnatasi a partire dal movimento sessantottino – dalle proteste contro la guerra alla liberazione dal colonialismo, dalle lotte operaie alla contestazione generazionale fino alle battaglie femministe – era riuscita a mettere in comune il necessario immaginario sociale e culturale, sperimentando e agendo i luoghi stessi della comunitarietà costituenda come “utopia concreta negativa”, o meglio come distopia vissuta capace di scuotere le fondamenta della società patriarcale in tutte le sue istituzioni costituite, dal pubblico al privato.
Con il sessantotto si chiude non solo il 900, ma entra in crisi l’età moderna che con la macchina a vapore aveva sancito l’affermazione della produzione capitalistica con la separazione del lavoro manuale da
quello intellettuale che aveva introdotto la mistificazione dell’operaio-venditore della propria merce-lavoro. Con la rivoluzione sociale sessantottina si compie un salto ontologico fondamentale, ovvero il passaggio dal soggetto al linguaggio, cioè lo svelamento dell’individualismo alla moltitudine relazionale come vero archetipo dell’umano. Tuttavia la chiave disvelata da questo grandioso movimento – che tra gli anni sessanta e settanta ha fatto scuotere le istituzioni ereditate dalla modernità – è stata sottratta da una nuova essenza del capitale. Luc Boltanski ed Ève Chiapello avevano anticipato questa sottrazione che avrebbe portato all’edificazione del nuovo spirito del capitalismo descritto nel volume dell’omonimo titolo, editato in Francia nell’ultimo anno del secolo scorso e pubblicato in Italia soltanto nel 2014 da Mimesis, dopo varie vicissitudini editoriali su cui ci riferiva Benedetto Vecchi in una sua recensione di otto anni fa. Il merito degli autori de Il nuovo spirito del capitalismo – osservava Vecchi – è quello «di aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente» discontinuità a continuità con il suo passato». Infatti il lavoro dei nostri ricercatori dimostra come «la critica all’alienazione e alla parcellizzazione del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva».
Pertanto il cosiddetto “management del fattore umano” va considerato come « un dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine costituito nell’impresa». Aggiungeva il buon Vecchi che questa è una condizione costante per il «superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto sociale e di classe».
Cosicché, se si rimuovesse il conflitto sociale, quale elemento politico indispensabile dell’analisi, si farebbe apparire il germogliare del nuovo spirito del capitalismo come un «fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali». In definitiva possiamo dire che in qualche modo anche noi ravvisiamo la necessità di approfondire l’analisi non solo su come il capitalismo sia cambiato, ma contribuendo allo sviluppo della ricerca militante sui possibili processi di soggettivazione, non tralasciando l’uso degli strumenti analitici offerti dalla cornice dei saperi critici, non a caso questo volume raccoglie e fa incrociare diversi contributi degli autori che afferiscono il campo delle discipline sociali, senza tralasciare altre opportune contaminazione scientifiche che mettano a fuoco innanzitutto le questione ecologiste ed epidemiologiche.