Dall’ingerenza della NATO alla mobilitazione del movimento pacifista e nonviolento, fino ai riferimenti al diritto internazionale. Attraverso le parole e l’esperienza di Gianmarco Pisa – segretario nazionale dell’Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace –, proviamo a capire meglio la situazione geopolitica attuale analizzando i conflitti in Balcani e Ucraina, le ultime guerre che, in ordine di tempo, hanno interessato il territorio europeo.
Solo il personale civile, purché fornito delle necessarie competenze, può affrontare in modo, al tempo stesso, legittimo, affidabile e credibile, l’azione di inibizione della violenza senza l’uso delle armi, senza il ricorso alla violenza, anzi, specificamente, mediante l’approccio costruttivo proprio della nonviolenza. È su questo assunto che si basano i Corpi Civili di Pace, istituiti in via sperimentale nel 2013 per porre le basi per la realizzazione di una più ampia e strutturata “difesa civile, non armata e nonviolenta” in situazioni di conflitto e di emergenze ambientali.
Gianmarco Pisa è un operatore di pace, attivista e pubblicista, nonché segretario nazionale dell’Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace, con cui è intervenuto in Kosovo, dopo essere stato anche nei Balcani ancora fumanti dopo il conflitto della fine degli anni novanta. Con lui proviamo a costruire un parallelismo proprio fra quella guerra – l’ultima combattuta nel cuore dell’Europa, fino al 20 febbraio 2022 – e l’attuale conflitto ucraino.
Balcani e Ucraina: a proposito di queste ultime due guerre “europee”, possiamo rifarci alla teoria dei “corsi e ricorsi storici”?
Mi sembra si possa richiamare, più che la nozione vichiana dei “corsi e ricorsi storici”, soprattutto il vecchio adagio di Marx del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”, secondo il quale “«”tutti i grandi fatti della storia universale si presentano, per così dire, due volte, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Spesse volte, una farsa dolorosa e cinica.
Nella situazione attuale – inaugurata dal colpo di stato di Euromaidan del febbraio 2014, proseguita con la guerra civile, durata otto anni, nel Donbass, e approdata all’intervento militare russo del febbraio 2022 – una nutrita schiera di giornalisti ha ribadito la tesi per cui la guerra in corso in Ucraina segna “il ritorno della guerra in Europa”. Si tratta di una tesi propagandistica, in alcuni casi utilizzata come vera e propria propaganda di guerra, e in ogni caso falsa e fuorviante.
Falsa perché sarebbe sufficiente ricordare il lungo ciclo di guerre nei Balcani, prima la guerra in Croazia e in Bosnia, tra il 1992 e il 1995, poi ancora il conflitto armato in Kosovo e la guerra della NATO alla Jugoslavia nel 1999. Fuorviante perché serve a spostare il peso della responsabilità su una sola parte: tende a rimuovere il fatto che furono appunto gli Stati Uniti e la NATO a portare, nel 1999, pesantemente una guerra nel cuore dell’Europa e induce viceversa a pensare che questa responsabilità ricada esclusivamente sulla Russia di oggi.
Difficile, in ogni caso, tacere delle responsabilità della NATO nella militarizzazione e nella spirale di guerra nella quale sempre più rischia di precipitare l’Europa. È appena il caso di ricordare che, solo in Europa, Stati Uniti e NATO dispongono di decine di basi militari e dislocano decine di bombe nucleari in sei basi sparse tra Germania, Belgio, Paesi Bassi, Turchia, e Italia; nel nostro Paese ad Aviano e a Ghedi.
Attualmente è in corso il dibattito sul diritto e la giustizia internazionale, ma è bene anche ricordare quali presupposti giuridici e quali violazioni del diritto internazionale si sono consumati con la guerra alla Jugoslavia del 1999.
Le Nazioni Unite hanno richiamato i capisaldi del diritto internazionale: la pace e la sicurezza internazionale, il rispetto della sovranità, dell’indipendenza politica e dell’integrità territoriale degli Stati, il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli e il principio di non ingerenza nelle questioni interne dei singoli Paesi.
Nell’ambito dei principi fondamentali della giustizia internazionale non esiste un principio “più fondamentale” degli altri; d’altra parte, è noto che gli stessi diritti umani sono un complesso universale e indivisibile. La guerra non può dunque essere uno strumento legittimo di risoluzione delle controversie, così come sanzioni unilaterali e illegittime non possono essere considerate uno strumento praticabile. Allo stesso modo, la violazione di accordi e trattati non può essere accettata.
In relazione alla guerra in corso, è opportuno richiamare la violazione degli accordi di Minsk da parte ucraina. Se invece si torna al precedente del 1999, è impossibile dimenticare che quella che fu presentata addirittura come una “guerra umanitaria” fu in realtà un’aggressione a tutti gli effetti ai danni di un Paese indipendente, la Jugoslavia, membro delle Nazioni Unite. Nel corso di quell’aggressione, a proposito delle Convenzioni di Ginevra, non si può dimenticare l’uso da parte della NATO di munizioni a uranio impoverito, gli ospedali, le scuole, le infrastrutture civili colpite e distrutte.
È utile fare una riflessione su analogie e differenze tra l’intervento militare russo in Ucraina e la questione del Donbass, da un lato, e l’intervento militare della NATO in Jugoslavia e la questione del Kosovo, dall’altro. Vi è un parallelismo tra queste guerre fomentate dalla strategia bellicista NATO-USA?
Ci sono analogie e differenze, ma un troppo facile parallelismo rischia di portare fuori strada. A differenza della situazione del Kosovo degli anni novanta ad esempio, la vicenda del Donbass era già stata inserita in un contesto diplomatico internazionale, come dimostrano il processo politico del “formato Normandia” e la firma del primo protocollo di Minsk nel settembre 2014, che nei primi tre punti richiedeva il cessate il fuoco immediato, il monitoraggio del cessate il fuoco da parte dell’OSCE e una legge sullo status speciale per una significativa autonomia del Donbass.
Se da un lato non si può accettare che le violazioni del diritto e della giustizia internazionale possano fungere da precedente, dall’altro va respinto l’approccio da “doppio standard” che troppo spesso muove le cancellerie occidentali. Non a caso, sono temi che tornano nella recente proposta avanzata dalla Cina per la soluzione politica della crisi ucraina in dodici punti. Non va dimenticato che il Kosovo si è di fatto separato dalla Serbia e alla fine ha proclamato la propria, controversa, indipendenza proprio dopo la guerra della NATO del 1999 ai danni della stessa Serbia.
La forza del movimento pacifista sta proprio nella capacità di coniugare conflitto e consenso, di sviluppare lotta e proposta.
Ogni volta si sente ripetere: “Dove sono i pacifisti?”, quindi può essere utile richiamare le iniziative dei movimenti per la pace all’epoca delle guerre nei Balcani.
I pacifisti sono presenti: non li vede solo chi, per un motivo o per l’altro, finge di non vederli. D’altra parte, se per “pacifismo” intendiamo, in senso ampio, l’insieme delle soggettività che si battono contro la guerra, contro il militarismo e per la pace, è evidente che si tratta di un movimento vasto e composito, con una gamma di posizioni anche diverse al proprio interno, come è naturale che sia. La gran parte del movimento è fermo nella sua posizione contro la militarizzazione e contro il militarismo, contro l’invio di armi all’Ucraina, a favore di un cessate il fuoco che sia il più rapido possibile e per la riapertura, il più presto possibile, di un percorso politico e diplomatico.
Anche la critica contro le sanzioni unilaterali imposte alla Russia, sulla cui efficacia peraltro il dibattito è assai vivace, è presente tra le realtà del movimento “contro la guerra e per la pace”. Posso portare l’esempio di una “piazza” importante nella geografia dei movimenti, Napoli, dove varie iniziative hanno portato i temi della fine dell’invio di armi all’Ucraina, del ritiro delle sanzioni unilaterali – che finiscono sempre per colpire le popolazioni civili – alla Russia e ad altri Paesi, del ritiro dei soldati italiani mobilitati nelle esercitazioni della NATO ai confini della Russia e dell’Ucraina e dei contingenti italiani nelle varie missioni militari all’estero; della lotta contro le basi e le servitù militari nel nostro Paese e infine dello scioglimento della NATO.
Insomma, il movimento per la pace, pur se con numeri e con un impatto lontani da quelli delle manifestazioni del 1999 e del 2003, è presente e attivo; ha forse sempre più bisogno di trovare occasioni di “unità d’azione”, in modo da moltiplicare l’efficacia della propria iniziativa.
Non solo “contro la guerra”, ma anche “per la pace”. Quindi può essere utile ricordare i progetti positivi delle organizzazioni per la pace, per esempio i Corpi Civili di Pace nei Balcani e in Kosovo. Quale il loro ruolo?
Questo, tornando alla riflessione precedente, è propriamente un punto qualificante delle forze del movimento contro la guerra e per la pace: di non essere cioè solo capace di una necessaria protesta con campagne e mobilitazioni, ma di essere anche portatore di una ben studiata proposta costruttiva. In generale, la forza del movimento sta proprio nella capacità, per usare una fortunata espressione, di coniugare conflitto e consenso, di sviluppare lotta e proposta.
All’epoca delle guerre nei Balcani ci furono le grandi campagne e marce per la pace: la “marcia dei Cinquecento” a Sarajevo del 1992; la marcia “Mir Sada” del 1993; la Campagna Kosovo per la nonviolenza e la riconciliazione, con il progetto dell’Ambasciata di Pace a Prishtina; il progetto dei Corpi Civili di Pace in Kosovo.
Per non parlare del movimento dei lavoratori, come nel caso dello sciopero generale contro la guerra in Jugoslavia e la manifestazione dei sindacati di maggio 1999. O la manifestazione contro la guerra dell’aprile 1999 indetta da Rifondazione Comunista. Restano attivazioni decisive, perché indicano una prospettiva e segnalano un’esigenza: collocare la lotta contro la guerra e per la costruzione della pace al centro dell’agenda, non solo dei movimenti, ma anche delle forze politiche e sindacali.