“Sono venuto a Bruxelles per ricordare agli eurodeputati e a tutti i politici europei che non c’è
differenza tra gli esseri umani. Noi profughi al confine tra Polonia e Bielorussia siamo stati trattati come persone di seconda categoria. La gente al confine continua a morire, per favore accoglietele”.
Questo l’appello che Jafaar Alasta affida all’agenzia Dire. Iracheno, 22 anni, è tra le migliaia di cittadini non europei che a partire dall’estate 2021 hanno raggiunto la Bielorussia per entrare nell’Unione Europea
attraverso il confine polacco, a costo della vita. Ora è a Bruxelles, sede del Parlamento Europeo su invito della eurodeputata polacca indipendente Janina Ochojiska, del gruppo dei Popolari europei, che oggi inaugura la mostra “Pushback are illegal. Help is legal”.
L’esposizione è una raccolta di scatti della fotoreporter di
Gazeta Wyborcza Agnieszka Sadowska Bialystok e del fotografo e volontario dell’ong ‘Kik’ Wojtek Radwanski, che mira a denunciare la pratica dei respingimenti dei richiedenti asilo, nonché la criminalizzazione dei volontari polacchi, che tutt’oggi aiutano i profughi rischiando di incorrere in multe e procedimenti giudiziari poiché accusati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.
La polizia di frontiera ha confermato in un report di dicembre scorso di aver respinto 50.000 migranti verso la Bielorussia, accusando l’esecutivo di Minsk di aver orchestrato la crisi col sostegno della Russia. Al tempo stesso il governo polacco, con lo scoppio della guerra in Ucraina, ha permesso l’ingresso di oltre nove milioni di profughi dal confine ucraino, attirando le critiche di quelle Ong che denunciano la criminalizzazione dell’aiuto per i profughi non europei.
Originario di Baghdad, lo stesso Jafaar Alasta riferisce di essere stato respinto due volte. La sua è una storia che conferma i resoconti dati dai migranti in oltre un anno e mezzo di crisi: arrivato a Minsk partendo da Dubai, tramite un biglietto aereo preso con la promessa che, una volta al confine polacco, “mi avrebbero accolto. Mi sono detto: è l’Europa, sanno che lascio un Paese dove ci sono guerra e violenze. Mi accoglieranno”. Quanto alle vie regolari, Alasta dichiara: “Era impossibile per me, perché un visto per un Paese europeo costa varie migliaia di dollari”.
E così, una volta raggiunto il confine dell’UE, “mi hanno respinto due volte, sia la polizia polacca che quella bielorussa. Ho visto persone prese a calci e pugni perché non volevano tornare verso il confine. A un certo punto mi sono nascosto nella foresta da solo, coi vestiti bagnati per la pioggia e per aver guadato un fiume, senza né acqua né cibo. Avevo deciso di lasciarmi morire, poi sono arrivati i volontari di una Ong polacca che mi hanno portato in ospedale. Quando mi sono ristabilito, però, la polizia mi ha rinchiuso in un centro per migranti, dove ho trascorso sei mesi in condizioni terribili in attesa di completare le burocrazie per ottenere lo status di rifugiato”.
Oggi Jafaar Alasta ha un lavoro e sogna di studiare, mentre impara faticosamente il polacco. “Ho tanti amici che mi aiutano”, assicura, “ma non ho superato il trauma di quei momenti”. Poi aggiunge: “Nel 2023 non si possono lasciare le persone morire nella foresta, al gelo. Tuttora ci sono persone bloccate tra le frontiere”. In questi primi tre mesi, secondo stime del governo almeno otto persone hanno perso la vita, ma per i volontari sono molte di più. “La Polonia ha speso milioni per costruire un muro per sigillare il confine con i soldi dei contribuenti, ma non sarebbe stato più utile usare quei soldi per accogliere i migranti e dargli una vita migliore?” si domanda infine il giovane iracheno.