Il 24 marzo ricorre l’anniversario dell’aggressione della NATO alla Jugoslavia, inaugurata appunto il 24 marzo 1999 e durata 78 giorni, concludendosi poi il successivo 10 giugno. Più volte ci si è soffermati sulla portata dei bombardamenti e la dimensione dell’aggressione, costellata di una serie di pagine orribili e confermata dai numeri stessi delle vittime e delle devastazioni. Solo nella seconda notte di guerra, il 25 marzo, sono impegnati oltre cento aerei. Il 3 aprile viene deliberatamente preso di mira il centro di Belgrado, una delle grandi capitali d’Europa, e diversi edifici sono colpiti. Il 12 aprile, in uno dei tanti raid della NATO, viene colpito un treno, in quello che sarebbe stato uno dei tanti attacchi contro le linee ferroviarie e stradali sul territorio jugoslavo, uccidendo dieci persone. Due giorni dopo, il 14 aprile, a Mejë, non lontano da Prizren, Kosovo, una colonna di profughi viene colpita causando 73 vittime, un crimine orribile, “giustificato” dalla NATO, come riportato dalla stampa, con il fatto che fosse stata «scambiata la colonna dei trattori per una fila di blindati serbi». Il 21 aprile è ancora colpito il centro di Belgrado, sono distrutti edifici civili, è colpita la sede del Partito Socialista. A Novi Sad viene colpito l’ultimo ponte sul Danubio ancora integro e il 23 aprile è colpito perfino l’edificio della Televisione di Stato della Serbia, causando la morte di ventiquattro persone. Negli stessi giorni è distrutta, a Kragujevac, la Zastava, una delle più grandi e importanti industrie del Paese. Con orgoglio sinistro, la NATO annuncia il 3 maggio l’utilizzo di bombe alla grafite contro centrali elettriche al fine di provocare black-out, costringendo al buio varie città della Serbia. Il 7 maggio, ufficialmente per un «terribile errore», è colpita perfino una rappresentanza diplomatica, l’Ambasciata Cinese a Belgrado. Il 14 maggio è confermato il bombardamento contro il villaggio di Korisa, Kosovo, che provoca la morte di oltre cento persone, con la “motivazione” che si trattava di un «obiettivo legittimo» dal momento che «i serbi usano le persone come scudi umani».
Numerose strutture e infrastrutture civili vengono colpite, distruzione e morte sono ancora provocate tra aprile e maggio. Nel frattempo, il Tribunale internazionale ad hoc per la ex Jugoslavia formula il 24 maggio un atto di accusa a carico del presidente jugoslavo Slobodan Milošević per «crimini contro l’umanità». Le trattative si riavviano il 2 giugno, con la missione della delegazione diplomatica composta dal russo Viktor Cernomyrdin e il finlandese Martti Ahtisaari con una proposta di cessate il fuoco concordata tra Stati Uniti, UE e Federazione Russa che avrebbe costituito la base per l’accordo finale, portando all’approvazione della risoluzione 1244, tuttora in vigore, del Consiglio di Sicurezza.
I bombardamenti avevano intanto distrutto o danneggiato 25.000 unità abitative, 470 chilometri di strade e 600 chilometri di binari, 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 scuole materne, 69 scuole, 176 monumenti, 38 ponti. Durante l’aggressione, furono effettuati 2.300 attacchi aerei su 995 strutture in tutto il Paese; furono sganciati 420.000 missili per complessive 22.000 tonnellate e 37.000 «bombe a grappolo» e furono anche usate munizioni a «uranio impoverito». Il danno conseguente alla contaminazione continuerà a mietere vittime nel corso delle generazioni. In definitiva, si stima siano state uccise 2.500 persone (secondo altre fonti, il totale fu di 4.000 vittime), tra cui 89 bambini e più di 12.500 persone ferite, con danni complessivi stimati in circa cento miliardi di dollari. Più dell’attuale (2022) PIL della Serbia a prezzi correnti.
Né la storia pare insegnare: come scriveva Hegel, del resto, «ciò che l’esperienza e la storia insegnano è proprio che i popoli e i governi non hanno mai appreso nulla dalla storia, né hanno mai agito secondo dottrine che avessero potuto ricavare da essa». È proprio degli ultimi giorni la notizia di una dichiarazione della viceministra britannica alla Difesa, secondo la quale «assieme a uno squadrone di carri armati pesanti da combattimento Challenger 2, manderemo [in Ucraina] anche le relative munizioni, inclusi proiettili perforanti che contengono uranio impoverito: sono altamente efficaci per neutralizzare tank e blindati moderni». Notizia alla quale ha fatto seguito la reazione russa, con un intervento della portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova, secondo la quale «queste armi non solo uccidono, ma avvelenano l’ambiente e causano malattie oncologiche nelle persone che vivono in queste aree. È ingenuo credere che ne saranno vittima solo coloro contro i quali verranno utilizzate. In Jugoslavia, prima sono morti i soldati della NATO, soprattutto italiani; poi hanno cercato a lungo di ottenere un risarcimento dalla NATO per i danni alla salute, ma le loro richieste sono state respinte. Quando si sveglieranno in Ucraina? I loro “benefattori” li stanno avvelenando».
Giustificata con il fallimento delle trattative di pace svolte a Rambouillet in Francia, l’aggressione alla Jugoslavia fu in realtà, come recentemente ha avuto modo di ricordare Živadin Jovanović, presidente del Forum di Belgrado per un mondo di uguali, un vero e proprio «punto di svolta globale». Proprio in quei giorni, del resto, la NATO andava riconfigurando il proprio profilo e il proprio ruolo e in occasione del Vertice di Washington, il 24 aprile 1999, veniva adottato il Nuovo Concetto Strategico della NATO, che trasforma definitivamente l’organizzazione in uno strumento di guerra globale. Come stabilisce l’art. 31 del documento, infatti, «la NATO cercherà, in cooperazione con altre organizzazioni, di prevenire i conflitti o, in caso di crisi, di contribuire alla loro gestione efficace … anche attraverso la possibilità di condurre operazioni di risposta alle crisi al di fuori dell’art. 5», articolo che limita(va) il raggio di azione dell’Alleanza «in Europa o in America del Nord». Né possono essere taciuti i paradossi della cosiddetta “proposta di pace” di Rambouillet, quella che, come ricordò Danilo Zolo, lo stesso Henry Kissinger riconobbe come «un diktat inaccettabile, poiché imponeva al governo di Belgrado di riconoscere la NATO come forza militare di occupazione dell’intero territorio serbo e montenegrino».
Per la precisione, la proposta prevedeva la «presenza di una forza di implementazione militare che, su invito delle parti, sarà composta da forze della NATO. Il capo 7 che regola tale “corpo militare di pace” è corredato da un’appendice che al suo articolo 8 recita: il personale NATO dovrà godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei e equipaggiamento di libero e incondizionato transito attraverso l’intero territorio della Federazione …, ivi compreso l’accesso al suo spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovrà includere, ma non essere a questo limitato, il diritto di bivacco, di manovra e di utilizzo di ogni area o servizio necessario al sostegno, all’addestramento e alle operazioni».
Un «punto di svolta globale», si diceva. Nelle parole di Živadin Jovanović, infatti, «come ampiamente riconosciuto, l’aggressione è stata intrapresa in violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale, inclusa la violazione della Carta delle Nazioni Unite, e senza alcuna autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza […]. L’aggressione ha distrutto l’intera architettura di sicurezza e cooperazione dell’Europa e del mondo, annullando i postulati di Teheran, Yalta, Potsdam, Helsinki e altri accordi e pilastri dell’ordine internazionale del secondo dopoguerra, inaugurando così disordine, insicurezza, persino caos».
Un richiamo importante, da tenere in conto, pensando a una architettura di sicurezza «comune, complessiva, cooperativa» e a un nuovo equilibrio delle relazioni internazionali, nella prospettiva di un «mondo multipolare».