Cos’è la permacultura

L’ecologia è complessità, correlazioni e interdipendenze tra elementi e sotto sistemi di un sistema. La permacultura è un framework, cioè un insieme di principi di progettazione, strategie e tecniche che permettono di applicare i principi dell’ecologia, per creare insediamenti umani sostenibili, in armonia con l’ambiente naturale.

È lo strumento per non dover inventare la ruota ogni volta, apprendendo e mettendo in pratica ciò che è stato pensato, sperimentato e migliorato nel tempo.

Ideata e codificata circa cinquanta anni fa, in Tasmania, da Bill Mollison, docente di psicologia ambientale a Hobart, presso la Tasmanian University e da David Holmgren, uno studente del Tasmanian College of Advanced Education, la permacultura implica l’osservazione dei modelli naturali, la loro comprensione e l’utilizzo di tale conoscenza per progettare sistemi umani più resilienti ed efficienti.

I due co-fondatori si incontrarono in un contesto geografico eccezionale: il salotto di Mollison, la cosiddetta Repubblica di Strickland Avenue, si trovava in una zona dove la città di Hobart sfiora le pendici del Monte Wellington, caratterizzato dalle scoscese scogliere di dolerite e dalle rigogliose e alte foreste di eucalipti. Questo monte, Kunanyi, come è chiamato dai discendenti degli Aborigeni, che circa 40.000 anni fa popolarono la Tasmania, prima che scomparisse l’istmo che la collegava all’Australia, domina la città con una presenza fisica, possente nella mente degli abitanti del posto.

Holmgren, ricordando l’incontro con il suo mentore, a proposito di un luogo in cui modernità e natura si incontrano e si scontrano, scrisse: «In questa serra intellettuale ho incontrato Bill Mollison, la cui vita e le cui idee incarnavano un ponte creativo, tra natura e civiltà e tra tradizione e modernità.»[i]

Gli anni ’70 del novecento sono anni di fermento economico, sociale e ambientale e le influenze esercitate sui due protagonisti sono molteplici, ancor di più perché vissute all’interno di un ambiente accademico. La preoccupazione per il degrado del suolo, la crisi energetica e le problematiche sociali, fanno da substrato per la ricerca di soluzioni pratiche per l’intero Sistema Terra, l’approccio olistico nel guardare le cose, l’implementazione di una cultura permanente, che portano a pensare la permacultura come un modello di sviluppo di comunità.

L’ambiente urbano

In Italia, i comuni sono classificati da Eurostat attraverso tre gradi di urbanizzazione, alta, media e bassa, tramite uno strumento basato sulla densità demografica e il numero di abitanti. I dati descrivono che il 67,9% dei comuni ricade nella classe di bassa urbanizzazione, cioè in aree prevalentemente rurali, mentre solo il 3,3% sono classificati ad alta urbanizzazione: questi ultimi ricoprono una superficie territoriale complessiva del 4,8% dove, però, si concentra il 33% della popolazione italiana.[ii]

L’urbanizzazione è un complesso processo socio-economico che trasforma l’ambiente edificato, convertendo gli insediamenti precedentemente rurali in insediamenti urbani, spostando al contempo la distribuzione spaziale di una popolazione dalle aree rurali a quelle urbane. Questo processo non agisce solo in termini meccanici, ma include cambiamenti nelle occupazioni dominanti, nello stile di vita, nella cultura e nel comportamento degli esseri umani, trasformando la struttura demografica e sociale.[iii]

L’intensificazione dei flussi di prodotti, servizi ed informazioni, uniti alla trasformazione delle forme insediative sui territori, rendono il limes urbano sempre più sfumato, procedendo verso la scomparsa del confine riconoscibile della città contemporanea.

Impatti ambientali

I modelli di sviluppo concepiti e realizzati all’interno delle tre rivoluzioni industriali – la macchina a vapore, il petrolio e l’informatica – hanno prodotto perdita di biodiversità e degrado dei relativi servizi ecosistemici. Tali modelli sfociano in stili di vita che richiedono una più alta intensità per un più alto consumo di risorse, come ad esempio diverse forme d’energia e acqua.

Ma, gli impatti ambientali dell’urbanizzazione si estendono oltre i deboli confini della città quando, in una relazione di interdipendenza con gli effetti globali di lungo periodo, come i cambiamenti climatici, essi si evolvono nello spazio e nel tempo.

L’applicazione di normative stringenti, il progresso tecnologico e una maggiore consapevolezza dei cittadini hanno permesso di intraprendere alcune azioni di mitigazione e di conseguenza ridurre alcuni impatti sugli ecosistemi, ma questo è ancora insufficiente.

In un sistema dinamico complesso come è la Terra – e come è una città – si vogliono cercare e trovare unicamente soluzioni lineari e unidirezionali in entrambe le dimensioni, quella spaziale e quella temporale. Questo, ovviamente direi, rende più difficile risolvere i problemi.

Permacultura urbana: sfida, funzioni e vantaggi

Nelle aree urbane una sfida è l’utilizzo dello spazio, azione che cambia notevolmente rispetto al significato che diamo all’elemento.

Se la percezione è di uno spazio verde limitato alle funzioni ecologiche e ambientali di mitigazione del degrado prodotto dalle attività e dalle costruzioni dell’uomo, volgiamo lo sguardo verso un’unica direzione, tra l’altro la più semplice da individuare, rinunciando all’opportunità di esplorare altre funzioni ecosistemiche.

La funzione culturale è quella determinata da spazi verdi in cui le nuove generazioni incontrano quelle nate prima di loro e insieme imparano gli uni dagli altri, in termini di conoscenze ed esperienze.

La funzione sanitaria che ha come obiettivo la salvaguardia della salute, da tempo, sta esplorando e teorizzando che luoghi ecologici producono benessere fisico e psicologico, in termini preventivi e riparativi.

La funzione sociale e ricreativa permette di vivere in modo più profondo il contatto con la natura, all’insegna della tranquillità e della ricerca di un equilibrio che ricostituisca fisico e spirito dalle fatiche di una società veloce e frenetica, occupandosi di progettare e prendersi cura delle aree verdi.

Vi è infine la funzione alimentare, ultima certo non per importanza.

L’urbanizzazione può avere un impatto significativo sul diritto a un’alimentazione sana, sia positivamente che negativamente.

Da un lato, grazie alla concentrazione di mercati rionali, sono venduti prodotti freschi coltivati direttamente nelle aree vicine alla città. Inoltre, la presenza di diverse culture offre opzioni alimentari diversificate che raggiungono le cucine dei cittadini.

D’altra parte, l’urbanizzazione può anche avere un impatto negativo sul diritto a un’alimentazione sana, proliferando in città ogni sorta di fast food e minimarket, che tendono a offrire opzioni meno salutari ad alto contenuto di calorie, grassi saturi e sali. Le aree urbane possono anche sperimentare deserti alimentari, cioè le aree che non hanno accesso a opzioni alimentari sane e convenienti, in particolare nei quartieri a basso reddito. I deserti alimentari possono portare all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione, nonché a un aumento del rischio di malattie croniche come l’obesità e il diabete.

Pertanto, è essenziale garantire che le politiche e le pratiche di urbanizzazione tengano conto del diritto a un’alimentazione sana e che vengano compiuti sforzi per fornire un accesso equo a opzioni alimentari sane e convenienti per tutti i residenti urbani, indipendentemente dal reddito o dall’ubicazione. Ciò può comportare anche la promozione dell’agricoltura urbana, attraverso pratiche rigenerative, a meccanizzazione zero, senza l’utilizzo di fertilizzanti e antiparassitari.

Ma colture e cultura, anche in questo caso, procedono di pari passo.

Dal secondo dopoguerra in poi, il tempo che più ha visto i fenomeni di migrazione dalle campagne alle città – e Torino, in questo senso, ne è stata l’emblema per via della presenza della FIAT – giungere in città era da un lato un atto di sopravvivenza, legato al reddito derivato dal lavoro in fabbrica e dall’altro un inizio di percorso di ascensione sociale: dal lavoro con la terra, associato a ogni tipo di incertezza, si giungeva allo scambio tempo di lavoro per denaro, assoggettandosi a un padrone con la speranza di costruire un futuro migliore per la generazione successiva.

Ma, nell’aspirazione a migliorare, si è assunto il fatto che coltivare il cibo sia un atto umile, da bifolco e sostanzialmente da povero.

Non è certo un caso che i giardini della vecchia nobiltà o della nuova borghesia, che siano ubicati in ville auliche o in villette a schiera, presentino quasi unicamente piante ornamentali, spesso alloctone, spesso caratterizzate da elevata fitotossicità.

È il fascino della bellezza fine a se stessa, da contemplare, da mostrare, un insieme residuo di sensi che ha escluso per primo il gusto e spesso anche il tatto, delegando la manutenzione a personale specializzato pagato per svolgere il lavoro.

Urge un processo di decolonizzazione dei giardini, dei viali, dei parchi urbani, una decolonizzazione del pensiero borghese di superiorità, riappropriandosi invece della bellezza che c’è nella vita in sé, in un melo in fiore, in un cespuglio di ribes su un letto di fragole, nella rotondità, nel calore e nel profumo sprigionato dalle bacche di pomodoro. In questo senso, spazio ce n’è a bizzeffe perché ogni aiuola, ogni viale alberato, ogni prato potrebbero diventare luoghi di coltivazione comunitari, creando un filo diretto tra produzione e consumo, per sé e per la comunità.

Urge provare a ripensarsi, percependosi ricchi e fortunati nel momento in cui abbracciamo la vita vegetale che è in grado di fornirci un’abbondanza strepitosa, con cui nutrirci e prosperare, per giungere a creare una simbiosi tra funzione alimentare e funzione estetica.

Ecco che, dopo questo excursus, possiamo dire che la permacultura urbana può essere applicata in diversi modi, incorporando orti per la produzione di cibo nei paesaggi urbani,[iv] implementando infrastrutture verdi per la coltivazione e la gestione dell’acqua, su tetti e pareti, progettando ecosistemi e comunità sostenibili.

Galline da giardino ed erbe aromatiche

Esistono esempi di successo

Credo che l’esempio più noto a livello globale – perché oltre a essere progettazione e sperimentazione è anche un movimento di persone – sia quello delle Transition Towns.

«Tutto avviene quasi per caso nel 2003. In quel periodo Rob Hopkins insegnava a Kinsale, in Irlanda e con i suoi studenti creò il Kinsale Energy Descent Plan, un progetto strategico che indicava come la piccola città avrebbe dovuto riorganizzare la propria esistenza in un mondo in cui il petrolio non fosse stato più economico e largamente disponibile. Voleva essere un’esercitazione scolastica, ma quasi subito tutti si resero conto del potenziale rivoluzionario di quella iniziativa. Quello era il seme della Transizione, il progetto consapevole del passaggio dallo scenario attuale a quello del prossimo futuro.»[v]

Hopkins è un ecologista che ha insegnato per anni alle persone come progettare attraverso i principi della permacultura. Le Transition Towns, attraverso progetti pratici e realizzabili, processi governati dal basso e la costruzione di una forte rete sociale e solidale tra gli abitanti delle comunità, mira a creare ambienti umani liberi dalla dipendenza dai combustibili fossili e attenti alla rilocalizzazione delle risorse di base di una comunità, come la produzione del cibo.[vi]

Ad oggi, a livello globale, aderiscono alla Transition Network circa 1100 gruppi e sono presenti 25 hub territoriali, toccando tutti i continenti.

Un altro esempio è quello costituito da Cuba.

Il Periodo Especial, un lungo periodo di tracollo economico iniziato a seguito del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e per estensione del Comecon e inasprito dall’embargo statunitense del 1992, fu caratterizzato da forniture di petrolio ridotte al minimo, che portarono a una diminuzione a due cifre del PIL e a una perdita di capacità nutrizionale per la popolazione.

Un’agricoltura, fortemente industrializzata e dipendente dai combustibili fossili, basata sulla monocoltura di canna da zucchero, si era polverizzata in un istante e governo e popolazione operarono un drastico cambio di abitudini di vita.

Giunsero sull’isola scienziati ed esperti di permacultura, persone che avevano compreso in anticipo i rischi e la vulnerabilità dell’agricoltura convenzionale. I cittadini diedero vita a orti urbani, sostenuti dai permacultori che insegnarono la rotazione delle colture, i sovesci e forme naturali di controllo dei parassiti. Attraverso queste pratiche è stato recuperato il suolo, devastato da decenni di agricoltura intensiva.

In poco più di un lustro, L’Avana produceva autonomamente una quantità di frutta e ortaggi, base di una sana alimentazione, che portò la popolazione a recuperare il deficit alimentare creatosi qualche anno prima.

Anche a livello comunitario vi furono benefici: gli orti urbani consentono alle persone di acquisire conoscenza su come coltivare e conservare il cibo, per le loro piccole dimensioni si prestano alla creazione e lo sviluppo di micro economie di strada o di quartiere e sviluppano elementi di empowerment individuale e rapporti di solidarietà tra i cittadini. Un’agricoltura fatta di sostenibilità e di rapporti umani.

In Italia, il Parco Nord Milano costituisce una ricca esperienza. Ideato alla fine degli anni ’60, si estende per circa 600 ettari tra i quartieri della periferia nord di Milano, sorgendo in uno dei contesti più densamente urbanizzati d’Europa.

Dalla collaborazione con Etifor, spin-off dell’Università degli studi di Padova, è stata creata una foresta commestibile, dove tra aceri, frassini, querce, carpini e tigli trovano il loro posto anche rose canine, ciliegi, meli e peri selvatici, noccioli, prugnoli, cornioli, sambuchi e biancospini.

«La visione della foresta viene quindi ampliata oltre il concetto di bellezza e di alleata contro la crisi climatica, e considerata come luogo di approvvigionamento di cibo».[vii]

Nel Parco sono operative proposte di educazione ambientale rivolte alle scuole, orti urbani attivi dagli anni ’80 e dal 2007 è realizzato un Festival della biodiversità.

Personalmente sono orgoglioso di aver contribuito a progettare e realizzare un orto con un gruppo di pazienti di una cooperativa che si occupa di dipendenze patologiche, in partnership con l’ASL 1 di Torino, all’interno degli orti urbani di Mirafiori Sud, un quartiere della città ricco di storia e contraddizioni.

Non si tratta solo di creare percorsi di inclusione sociale, certo importante quando si tratta di persone che per varie vicissitudini hanno vissuto fenomeni di esclusione e di espulsione, ma di favorire in più l’integrazione tra soggetti che sono diversi tra loro per età, cultura e condizioni sociali. Tutto ciò attraverso il contatto con la terra, il rapporto con il cibo e i rapporti di convivialità e solidarietà.

Uno sguardo al futuro

Credo che la permacultura urbana potrà giocare un ruolo sempre più importante nel plasmare il futuro delle nostre città. In Italia, rispetto alla popolazione, possiamo osservare due andamenti: il numero degli abitanti tende a diminuire e l’età degli stessi ad aumentare.

Sarà necessario trovare modi per vivere in modo sostenibile nelle aree urbane, aiutando soprattutto i soggetti che con il tempo diventano più sedentari e fragili. E, in un incontro e mutuo scambio tra generazioni, aree ecologiche ricche e vive sono l’habitat migliore per sviluppare relazioni, sinergie e nuove idee.

La sfida è coinvolgersi.

Cura della terra, cura delle persone

I modi sono molti: cercare e riconoscere progetti avviati nella propria zona, provare a essere utili in orti comunitari, iniziare un piccolo progetto nel proprio giardino o nel proprio condominio, sostenere i mercati degli agricoltori locali e altre iniziative che promuovono un’agricoltura sostenibile e cibo sano e coltivato localmente.

È possibile anche partecipare a corsi ed eventi, con formatori che hanno sviluppato competenze date da conoscenza ed esperienza negli anni. Ci sono anche molte risorse disponibili online e diversi libri, in diverse lingue, soprattutto in inglese e spagnolo e ormai anche qualcosa in italiano. Vent’anni fa il rapporto era ancora più squilibrato verso le lingue straniere e questo dimostra che possiamo crescere e progredire.

Ma, il cuore è e sarà sempre la comunità locale, dove seminare, innaffiare, curare e godere dei frutti Questo insegnamento, che ci viene direttamente dai due co-fondatori, ci suggerisce che l’azione etica sta nella cura e questa si sostanzia contemporaneamente verso la terra e verso le persone.

 

[i] Russ Grayson. «A short and incomplete history of permaculture», https://medium.com/permaculture-3-0/a-short-and-incomplete-history-of-permaculture-211828769ab3, 28 gennaio 2020. Sul sito medium.com, Russ Grayson ha pubblicato la versione integrale dell’articolo che nel 2007, insieme a Steve Payne, redattore della rivista Organic Gardener della ABC (Australian Broadcasting Corporation) inviò, su richiesta, alla rivista New Internationalist.

[ii]  Istat. «Comuni, superficie territoriale, popolazione residente e densità per grado di urbanizzazione di Comuni e Regioni», 2013, in https://www.istat.it/it/archivio/137001.

[iii] United Nations Department of Economic and Social Affairs. «World Urbanization Prospects. The 2018 Revision», 2019, p. 3

[iv] Consiglio la lettura di «Coltivare la città. Storia sociale degli orti urbani nel XX secolo» di Franco Ponzini, pubblicato da DeriveApprodi nel 2021.

[v] https://transitionitalia.it/cose-la-transizione-2/

[vi] https://transitionnetwork.org/

[vii] https://parconord.milano.it/5875-food-forest-riserva-di-cibo-e-biodiversita/#