Una tragedia annunciata quella avvenuta nel reparto ginecologia dell’Ospedale Pertini di Roma lo scorso gennaio, una donna lasciata sola ad accudire il suo bambino di tre giorni, probabilmente stremata dal parto, si addormenta mentre lo allatta, soffocandolo.
Sì, perché il nostro sistema sanitario è riuscito a trasformare il rooming in, la sacrosanta esigenza di lasciare il/la bambino/a con la madre sin dai primi giorni di vita, in una sorta di liberi tutti con una progressiva riduzione del personale addetto all’assistenza delle partorienti: nonne, sorelle, zie hanno dovuto sopperire a tale carenza, costrette a bivaccare in corsia e a dormire su sedie a sdraio per essere presenti nei delicati momenti del post partum.
Poi è arrivato il Covid e le misure di isolamento che hanno impedito anche questo piccolo ma fondamentale aiuto familiare. Allora sarebbe stata naturale una maggiore assistenza verso le mamme, reduci spesso da travagli lunghi e dolorosi o addirittura da parti cesarei. Niente di tutto ciò è avvenuto e questo primo, importante momento per le neo- mamme si è via via trasformato in un vero incubo.
“Dopo il cesareo mi sono ritrovata da sola ad occuparmi del mio piccolo. Non potevo muovermi e sono quasi svenuta 2 volte. Avevo voglia di allattare e fargli sentire il mio contatto, ma nello stesso tempo ero debole e dolorante e il mio corpo faceva fatica…Il personale del nido non arrivava e il bambino piangeva. Risultato? Stava per cadermi dalle braccia mentre ero seduta perché stavo perdendo i sensi.”
“Leggendo la notizia della mamma di Roma mi reputo fortunata perché anch’io la prima notte mi sono addormentata distrutta dalla stanchezza e mi sono addirittura dimenticata di dare da mangiare al piccolo”.
“Non è il rooming ad essere sbagliato, sbagliate sono le condizioni in cui sono lasciate le mamme negli ospedali. Quando la stanchezza e la tristezza ci assalgono in un luogo che non è casa, spaesate e ci ritroviamo completamente sole, costrette senza reali alternative, ad occuparci di un neonato che stiamo ancora conoscendo”.
Queste alcune delle numerose testimonianze che molte donne hanno voluto lasciare sulla pagina Facebook del gruppo Palermo Mamme con gli hashtag #maipiùsola, #potevoessereio, #potevasuccedereame, una campagna social per denunciare il trattamento riservato alle mamme durante la degenza e la mancanza di risorse per il sostegno post partum. Le donne che raccontano la loro esperienza hanno scelto di mostrarsi con un palloncino, simbolo di una nascita o di un momento di festa, ma anche di momenti tragici.
Appello ripreso dall’associazione Mama Chat che ha promosso una raccolta di firme per chiedere il ritorno dell’assistenza familiare nei reparti maternità degli ospedali, molti dei quali, dopo la tragedia al Pertini e la bufera mediatica che ne è seguita, hanno consentito nuovamente la presenza di un familiare a supporto delle mamme dopo il parto. Decisione questa che potrà forse mettere a posto la coscienza di qualche direttore sanitario, ma non potrà di certo saldare il conto con quanto accaduto.
Ed è su questo aspetto che occorrerebbe riflettere per capire il perché di una tragedia che poteva e doveva essere evitata. “Una neo mamma dopo il parto è una creatura vulnerabile tanto quanto il neonato. Ci vuole cura, ci vuole attenzione, ci vuole tempo. Tutte accortezze che, alla luce dei tagli operati negli anni alla Sanità e della conseguente carenza di personale, non sempre vengono messe in pratica.” Così scrivono le promotrici della campagna “maipiùsola” Simona Sunseri, Claudia Rizzo, Angelica Agnello ed Eliana Amato.
Cura, attenzione, tempo, proprio quello che manca nei reparti maternità depotenziati dalla riduzione di risorse e dall’emergenza Covid degli ultimi anni. Pesa la mancanza cronica di ginecologi, pediatri, ostetriche ma anche di una formazione adeguata per questi operatori che devono affrontare un percorso di accompagnamento e di cura “affettiva” e non solo medica verso un evento emotivo con il suo strascico di emozioni, paure, dubbi, talvolta devastanti per molte donne. Così il parto naturale ha ben poco di naturale nei nostri ospedali, la donna che inizia il travaglio è spesso costretta ad affrontare in solitudine ore interminabili di sofferenze, poiché nessun familiare, e men che mai il partner, può starle vicino e aiutarla.
Il parto indolore, nonostante le tecniche più innovative di analgesia epidurale consentano di ridurre al minimo la sofferenza senza conseguenze negative per mamma e bambino/a, rimane ancora un diritto sulla carta per le donne italiane, pur essendo inserito nei Livelli Essenziali di Assistenza, come denuncia l’Osservatorio Nazionale sulla salute della donna e di genere. Per problemi organizzativi e carenza di personale medico specializzato molte donne devono ancora rinunciare, soprattutto nelle regioni del Sud dove più forte è la resistenza culturale ed il pregiudizio in nome di quel indissolubile legame tra nascita e dolore, tra maternità e sacrificio che ha pesantemente condizionato la vita delle donne nei secoli dei secoli. Così dopo il parto la madre eroina, priva di forze, deve affrontare da sola i primi delicati momenti di vita del/della proprio/a bambino/a, i primi, spesso difficili, momenti di allattamento, i pianti, la mancanza di sonno… Il riposo è un lusso che una mamma non può permettersi.
È vero, poteva succedere a tutte noi, alle nostre figlie, alle nostre sorelle, amiche. E non è il destino, non è l’inadeguatezza, la stanchezza di una madre esausta alla quale sono stati negati aiuto e supporto, non è una tragica fatalità. Non è questo, perché sulla pelle delle donne si è consumata, ancora una volta, l’ennesima privazione di diritti, il diritto alla cura, alla scelta di come vivere i primi momenti accanto al/la proprio/a bambino/a, il diritto ad avere un adeguato sostegno medico e psicologico. I veri responsabili di questa tragedia dobbiamo cercarli altrove, tra coloro che hanno ridotto la sanità pubblica ad un colabrodo rimpinguando generosamente quella privata, tra coloro che continuano, ancora oggi, a tagliare i servizi essenziali di cura e di assistenza.