Questa volta le vittime di naufragio non le potranno nascondere, e neppure giustificare. Troppo facile dare la colpa di tutto a qualche presunto scafista o alle organizzazioni criminali che fanno partire i barconi che attraversano il Mediterraneo con il loro carico di persone costrette alla fuga in mare per la situazione tremenda che hanno vissuto nei paesi di origine, Iran, Pakistan e Afghanistan, questa volta, ed in quelli di transito come la Libia, o la Turchia, e per la mancanza di canali legali di ingresso ( come visti umanitari o visti per ricongiungimento familiare). Contro di loro la cancellazione del diritto di asilo, con l’avallo dell’Unione Europea, voluta da chi si propone di bloccare le partenze in collaborazione con i paesi di transito. Soccorsi mancati, se è vero che il barcone era stato avvistato da un assetto aereo di Frontex a 40 miglia dalla costa, molte ore prima del naufragio, ma i primi mezzi di soccorso della Guardia di finanza, secondo quanto riferiscono le versioni ufficiali dei media, sono stati costretti a tornare indietro per le condizioni del mare. Ed evidentemente non erano disponibili, o non sono state inviate, motovedette della Guardia costiera, che sono più idonee ad operare soccorsi in ogni condizione di tempo. Perchè in mare la vita umana è un valore assoluto, che non può dipendere dalle condizioni meteo, o dalle esigenze di dimostrare fermezza nella difesa delle frontiere marittime (law enforcement) o nella “lotta ai trafficanti”.
Centinaia di corpi dispersi in mare, decine di cadaveri che affiorano nelle acque davanti la costa crotonese, punto di sbarco ben noto, da anni, per i barconi che provengono dall’Egitto e dalla Libia orientale (Cirenaica). Se non addirittura dalla Turchia, dopo il rinnovo degli accordi dell’Unione Europea e della Grecia con Erdogan. Le vie di fuga terrestri verso l’Europa, infati, sono sempre più disseminate di muri. Rotte dal’Egeo allo Ionio, sulle quali non operano le ONG, ormai allontanate anche dal Mediteraneo centrale, ma che attraversano una zona SAR, quella maltese, in cui le autorità di La Valletta non intervengono se non all’interno delle loro acque territoriali (12 miglia dalla costa). In questa zona di mare, in tante occasioni, i mezzi della Guardia costiera italiana hanno soccorso migliaia di persone, prima che i barconi si avvicinassero alla costa, dove i frangenti e gli scogli possono causare naufragi dalle conseguenze mortali, come e’ successo oggi. Questa volta nessuno è arrivato in tempo, o forse si pensava che il barcone potesse raggiungere la costa, malgrado i frangenti sollevati dalla burrasca, sempre più violenti in prossimità della spiaggia. Di certo non risultano atività di coordinamento dei soccorsi dalle 20 di sabato scorso, ora del primo avvistamento del barcone da parte di un aereo di frontex, a 40 miglia dalla costa, In un tratto di mare in cui certo non mancavano imbarcazioni in transito, come emerge quotidianamente dai tracciati delle rotte navali commerciali.
Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, (al Considerando 8)“durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo”. Tutte queste Convenzioni contengono disposizioni relative alla tutela dei diritti fondamentali delle persone in situazione di ericolo in mare, che avrebbero dovuto impedire l’assimilazione dell’attività di ricerca e salvataggio ad una attività di immigrazione irregolare, ad un mero “evento migratorio”.
Forse, non si può dire che queste vittime siano conseguenza diretta del Decreto legge Piantedosi, approvato a colpi di fiducia dal Parlamento, ma non basta neppure attribuire tutte le responsabilità alle organizzazioni criminali, spesso in combutta con gli stessi governi dei paesi terzi con i quali non si esita a concludere accordi di respingimento. Anche se tutti sanno che fine faranno i naufraghi riportati a terra. In mano a milizie senza scrupoli che li sequestreranno, abusandone, e li rivenderanno ancora una volta, oppure li rimetteranno su un barcone lanciato verso le coste italiane. Oppure potrebbero scattare altri respingimenti a catena, fino a riportarli nel paese di origine dal quale sono stati costretti a fuggire per salvare la vita. Basti pensare a quello che succede oggi in Iran ed in Afghanistan, paesi di origine di molte delle vittime del naufragio sulla spiaggia crotonese, o in molti paesi dell’Africa subsahariana. Ma anche in Turchia i profughi siriani e afghani vivono in condizioni terribili e sono a rischio di respingimento. Per questo cercano la fuga attraverso il Mediterraneo. Ma non si poteva intervenire con mezzi adeguati per soccorrerle in tempo prima che le onde le inghiottissero?
I tempi di intervento dei mezzi di soccorso statali sono da tempo dettati dall’agenda politica, piuttosto che dall’esigenza di salvare prima possibile vite umane. E per le autorità marittime italiane i barconi che continuano a navigare verso coste insidiose come quelle pugliesi e calabresi, caratterizzate da bassi fondali, possono anche non essere in situazione di distress, di pericolo grave ed attuale per le persone a bordo. Anche se in base al Regolamento europeo n.656 del 2014 dovrebbero tutte essere dichiarate in tale situazione e dunque essere soccorse immediatamente. Spesso si preferisce monitorare il loro percorso come se si trattasse di un comune “evento di immigrazione irregolare” e non di una situazione SAR. Pagine e pagine di procedimenti penali intentati a vuoto contro le ONG, ed oggi archiviati, documentano queste prassi operative di abbandono in mare imposte dai vertici politici.
Non si può attendere che i barconi carichi di migranti provenienti dall’Egitto e dalla Cirenaica arrivino “in autonomia” sulle coste della Calabria, come si attende che arrivino allo stesso modo i barconi che raggiungono Lampedusa. Le dotazioni tecniche dei sistemi di controllo delle frontiere marittime, e i mezzi aerei impegnati dall’agenzia Frontex, consentono di tracciare già in acque internazionali queste imbarcazioni, soprattutto quelle più grandi che, dopo essere partite dalla zona di Tobruk o di Bengasi, se non dalla Turchia, hanno attraversato mezzo Mediterraneo. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare, il Piano Sar nazionale del 2020, in conformità con il manuale internazionale IAMSAR, impongono interventi in acque internazionali, anche al di fuori della zona di ricerca e salvataggio (SAR) riconosciuta da ciascuno Stato costiero. Se la vita umana e’ in pericolo non ci si può trincerare dietro questioni di competenza, come avviene troppe volte con Malta e con la Tunisia. E non basta invocare la collaborazione dei paesi terzi nella lotta contro i trafficanti, un rituale al quale si assiste da anni, che non ha risparmiato una sola vittima in mare.
Se si verificano tragedie come il naufragio di oggi, davanti alla costa crotonese, occorre verificare quali assetti di soccorso sono stati impegnati a partire dal momento delle prime notizie sull’avvistamento del barcone che poi è naufragato. Certo le ONG non sono mai state stabilmente presenti in quella zona, ed il loro allontanamento, frutto del Decreto legge Piante,dosi, potrà avere conseguenze mortali prevalentemente sulla rotta del Mediterraneo centrale. Ma da anni sappiamo che l’impegno delle unità di soccorso italiane in acque internazionali, al di fuori della zona SAR italiana, è soggetto a forti limitazioni per ragioni politiche indotte dai mancati accordi di coordinamento con Malta e dalle linee di intervento stabilite dal governo e dal ministro dell’interno. Non si può dimenticare che, dopo i casi Diciotti e Gregoretti, le unità militari della Guardia costiera più grosse sono state ritirate nelle acque territoriali, e tenute adirittura ferme per settimane nel porto di Catania. Come se anche per loro scattasse la possibilità di una accusa, di essere un fattore di attrazione (pull factor), se concorrevano a salvare troppe vite umane in acque internazionali. Troppe vite umane sono andate perdute in alto mare, proprio per queste accuse.
Adesso queste stragi non si devono più ripetere. Se non basta limitarsi a chiedere che l’Italia rispetti i suoi doveri di coordinamento con Malta, e che le autorità maltesi ratifichino tutti gli emendamenti alle Convenzioni internazionali SAR che non hanno ancora sottoscritto, è altresì fondamentale che la magistratura accerti, oltre alla presenza di qualche presunto scafista, la dinamica degli interventi di soccorso ed il rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio imposti agli Stati costieri. Perchè queste tragedie sono state anche frutto, nel corso del tempo, della mancanza di coordinamento e di interventi da parte degli Stati costieri, come è documentato nel caso della strage dei bambini dell’11 ottobre 2013 ( caso Libra). Allora tanti bambini tra i naufraghi, che avevano almeno commosso l’opinione pubblica, ed avevano quasi costretto la magistratura ad avviare indagini, dopo le denunce dei genitori sopravvissuti ai loro figli, oggi altri bambini dispersi in mare, ed altri genitori disperati in lacrime, che potrebbero presto scomparire dall’attenzione generale, nell’indifferenza che dilaga nel corpo sociale per effetto del consenso prestato alle politiche di “difesa dei confini” e di ” lotta all’immigrazione clandestina ed ai trafficanti”. Che non sono certo gli unici colpevoli di queste stragi.