Le necessità della guerra lo descrivono come un presidente in trincea, un salvatore della patria, un eroe nazionale persino. Un’enfasi dietro cui c’è del vero. Malgrado le tenute mimetiche e le pose militaresche, Volodymyr Zelens’kyj è «l’eroe necessario», come scrive Sofiya Stetsenko in ‘Ucraina, alle radici della guerra’ (Paesi Edizioni, 2022): «È possibile che Volodymyr Zelens’kyj sia soltanto un’immagine, un simulacro, un simbolo. Ma foss’anche così, egli è l’eroe necessario, quello di cui gli ucraini hanno – disperatamente – bisogno. E ha avuto il merito di non essersi sottratto dal recitare questo difficile ruolo».
Il suo passato di attore e produttore televisivo, rinfacciatogli come prova della sua incapacità (anche Ronald Reagan ebbe un passato d’attore, però), lo ha sicuramente aiutato nella creazione del personaggio del “comandante in capo“, sequel ideale del “servo del popolo” con cui conquistò le simpatie dell’elettorato ucraino.
Al paese serviva una guida, lui ha interpretato il ruolo che gli veniva richiesto. Dopo l’aggressione russa, la platea è divenuta mondiale e il successo mediatico è stato planetario. Anche così Zelens’kyj ha servito la causa del suo paese, facendo quello che meglio sapeva fare: spettacolo nel senso proprio del termine, cioè attirando l’attenzione, concentrando lo sguardo del mondo sull’Ucraina. La discussa presenza al festival di Sanremo rientrava in questa strategia. Ed è bene ricordare l’importanza che la kermesse sanremese riveste nell’immaginario russo e post-sovietico, con cantanti che ancora oggi sono celebrità a quelle latitudini, e che quindi motivano la presenza di Zelens’kyj al di là di ogni spettacolarizzazione e reductio ad circens della guerra.
La posizione politica del presidente Zelens’kyj prima del conflitto era assai precaria, con un consenso elettorale in netto calo e numerose defezioni tra i suoi sostenitori, senza considerare le abituali lotte di potere che hanno sempre caratterizzato la politica ucraina, preda di comitati d’affari e clan oligarchici. Scrive Oleksy Bondarenko, coautore del già citato libro «Proprio lo scontro con alcuni degli uomini più potenti del paese era diventato il principale grattacapo per il presidente che nel novembre 2021 aveva firmato la legge N. 1780-IX, volta a limitare l’eccessiva influenza degli oligarchi. All’epoca della sua approvazione la legge fu criticata per la sua vaga definizione di “oligarca” e per il fatto che tramite il controllo sull’organo preposto a stilare la lista di oligarchi (il Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale) il presidente avrebbe esercitato un’eccessiva influenza sul processo portando anche ad accuse di autoritarismo».
All’indomani dell’aggressione russa molto è cambiato, il consenso verso Zelens’kyj ha raggiunto il 90% e le faide interne hanno lasciato posto a un’apparente unità. Colpendo direttamente i loro asset industriali e finanziari, la guerra ha poi indebolito gli oligarchi al punto che ci si chiede oggi se la “de-oligarchizzazione” del paese non sia divenuta finalmente un obiettivo a portata di mano.
Ihor Kolomojs’kyj è il più potente tra gli oligarchi ucraini, padrino politico di Julija Tymošenko, poi di Petro Porošenko e infine – si dice – proprio di Zelens’kyj, è stato anche il finanziatore di alcuni battaglioni nazionalisti protagonisti, nel 2014-15, di crimini di guerra nel Donbass. Scrive ancora Sofya Stetsenko in Ucraina, alle radici della guerra: «Malgrado i proclami contro l’oligarchia, il rapporto [di Zelens’kyj] con Ihor Kolomojs’kyj è parso fin da subito saldo. Kolomojs’kyj è il proprietario dell’emittente 1+1 che ha mandato in onda sia la serie “Servo del Popolo”, sia l’annuncio della candidatura, ospitando poi numerosi endorsment di personaggi televisivi e giornalisti prezzolati nei confronti di Zelens’kyj.
Sottrarre influenza e potere agli oligarchi e rimettere al centro le istituzioni democratiche è stata la promessa elettorale con cui Zelens’kyj ha vinto le elezioni nel 2019, e la guerra sembra offrire al presidente l’occasione per realizzare questo disegno.
Una delle ragioni che hanno portato Volodymyr Zelens’kyj alla vittoria elettorale nel 2019 è stata la critica verso i politici di professione, corrotti e opulenti, distanti dalla gente comune e dai suoi bisogni.
Un approccio smaccatamente populista, un messaggio legalitario che è valso a Zelens’kyj il sostegno del 73,2% degli elettori stanchi della vecchia classe dirigente, responsabile di aver condotto il paese alla guerra in Donbass e incapace di trovare una via d’uscita alla crisi. Per questo, una volta eletto, Zelens’kyj si è circondato di amici e sodali piuttosto che di politici di professione.
La lotta alla corruzione, utile strumento per fare piazza pulita degli oppositori, e in quanto tale utilizzata in molti regimi post-sovietici, è una delle richieste dell’Unione Europea per poter considerare l’Ucraina come possibile candidato all’integrazione europea.
Dietro queste indagini, che hanno portato alla rimozione di decine di funzionari del ministero della Difesa (e hanno scoperchiato forniture per l’esercito a prezzi gonfiati, l’acquisto di giubbotti antiproiettile e altri articoli per le forze armate di bassa qualità), c’è la preoccupazione americana di non vedere i propri soldi finire nelle tasche sbagliate.
Il sostegno popolare verso Zelens’kyj si motiva per la capacità di interpretare il ruolo richiesto, di essere quell’«eroe necessario» di cui gli ucraini avevano bisogno, capace di rappresentare l’unità nazionale sostanziando lo sforzo di autodifesa e il sacrificio dei combattenti. Tuttavia, questo consenso è anche il risultato di una “narrazione unificata” sviluppatasi attraverso un uso sapiente dei media, grazie al controllo sulle principali emittenti nazionali.
Diversa è la rappresentazione mediatica all’estero, dove alle narrazioni che lo descrivono come un novello Churchill, si affiancano quelle lo accusano di “mandare a morire il proprio popolo” e di essere “servo” delle potenze occidentali.
Accuse dietro alle quali si nasconde, oltre a un malcelato antisemitismo, la propaganda russa che tanta influenza esercita ancora in Europa. La sua figura polarizza il dibattito pubblico tra sostenitori e detrattori, con il rischio di mettere in secondo piano le ragioni e il sacrificio di chi combatte sul campo.
Al di là delle narrazioni, Volodymyr Zelens’kyj resta un leader politico ambiguo; espressione del sistema di potere ucraino , egli è anche colui che quel sistema sta scardinando, complice la guerra. Tuttavia, la centralizzazione del potere non è mai buon segno. Le necessità belliche sembrano rendere inevitabile un rafforzamento della figura presidenziale, ma sarà importante vigilare sugli sviluppi futuri – ancorché oggi non prevedibili: l’Ucraina rischia la distruzione e la perdita di sovranità. Qualora sopravviva, molti saranno i problemi da affrontare, a partire da una distribuzione del potere che garantisca un adeguato livello di democrazia.
Ma occorre sopravvivere, prima.
(Matteo Zola, East Journal)