Umberto Santino, sociologo e fondatore del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e ideatore del “No mafia Memorial”, è autore di numerosissimi saggi, articoli e report sulla storia della mafia e dell’antimafia, a cui lavora da tutta una vita.  Ci rivolgiamo a lui per comprendere meglio la valenza dell’arresto di Matteo Messina Denaro, avvenuto a Palermo il 16 gennaio scorso

 

Ancora una cattura eccellente, spettacolare e oscura al contempo, come già quelle di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Come dobbiamo interpretarla? Sospetti di complicità, corruzione, patteggiamenti… La trattativa Stato-mafia, iniziata con la nascita dello Stato unitario, non si è mai conclusa…

A dire degli investigatori, nella cattura di Messina Denaro non ci sarebbe niente di oscuro. Dicono di avere usato il “metodo Dalla Chiesa”. Hanno seguito passo dopo passo i suoi movimenti e sono riusciti a catturarlo senza problemi. Ci si chiede: ma non potevano usarlo prima questo metodo prodigioso? E poi: è stato catturato o si è consegnato, essendo un malato con una limitata aspettativa di vita? C’è stata, come altre volte, una trattativa? A quale prezzo? Il problema vero sono i trent’anni di latitanza, inspiegabili senza una rete di complicità a tutti i livelli. Si comincia con la rete parentale, si continua con le relazioni ereditate dal padre (ufficialmente campiere dei proprietari terrieri D’Alì: un Antonio di Forza Italia è stato sottosegretario, senatore, e ora è in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa) e capo mandamento di Cosa nostra; un capitale sociale ampliato e rinnovato con il suo ruolo in Cosa nostra a fianco dei corleonesi, con le sue attività e la comunanza di interessi con la borghesia mafiosa (termine coniato da chi scrive e ormai usato a proposito e a sproposito), con i legami con le logge massoniche, particolarmente attive nel trapanese, con rappresentanti della politica e delle istituzioni. Lo sottolinea l’ex procuratrice aggiunta Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia al latitante, non sempre sostenuta dai suoi colleghi, in un Palazzo di giustizia in cui soggiornava qualche “talpa”. E’ questo groviglio che bisogna dipanare, ma pare che l’attenzione sia soprattutto rivolta ad aspetti… folclorici, a cominciare dalle sneakers firmate e finendo con il viagra. E non so se saranno soddisfatte le attese: cosa c’è nella carte di Riina, che sarebbero passate a lui dopo che erano state portate via dal covo-villino? Come si ricorderà il villino non fu perquisito, l’avevano assegnato al Centro Impastato per il progetto del Memoriale, ma ci abbiamo rinunciato anche perché non avevamo i soldi per restaurarlo. Ora c’è una stazione dei carabinieri. Cosa sa Messina Denaro dei mandanti esterni dei grandi delitti e delle stragi? E’ lui il depositario dei segreti? Parlerà o reciterà fino in fondo il copione dell’omertà? In ogni caso sarebbe una mezza verità, la verità intera può venire solo dalle istituzioni. 

Quel che è certo è che le complicità ci sono state, più che patteggiamenti ci sono state convergenze; non so se si possa parlare di trattativa nel caso specifico, ma la trattativa Stato-mafia è una costante nella storia d’Italia. E’ il problema della formazione del blocco dominante, di cui la mafia ha fatto sempre parte, prima a fianco degli agrari, poi come borghesia urbano-imprenditoriale e finanziaria, passando dai liberali alla Democrazia cristiana, con un ruolo fondamentale nella repressione delle lotte contadine e di ogni forma di mutamento. Questo ruolo storico è finito con l’implosione del “socialismo reale” e la scomparsa delle sinistre, con i profughi del PCI convertiti al neoliberismo come pensiero unico, cespugli di “irriducibili”, con qualche benemerenza sul piano sociale ma irrilevanti sul piano politico-elettorale. Negli ultimi decenni la mafia ha mantenuto un ruolo politico, appollaiandosi sul carro del vincitore, con il ventennio berlusconiano, e ora sta cercando con chi può intrecciare legami e alleanze.

Diceva Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Sono state più le stagioni della convivenza e dell’accordo; le fasi repressive seguono ad atti di violenza, sotto forma di delitti politico-mafiosi e soprattutto di stragi, da Ciaculli a quelle più recenti, che colpiscono rappresentanti delle istituzioni o hanno un effetto boomerang per la loro eclatanza. 

 

Come sta evolvendosi, o meglio involvendosi, la storia attuale della mafia, secondo Lei?

Come tutti i fenomeni di durata, persistenti nel tempo, la mafia intreccia continuità e innovazione. Senza continuità sarebbe un mutante alla deriva, senza innovazione sarebbe un carretto siciliano sperduto su una trazzera di campagna. Sono contrario a polarizzazioni del tipo: mafia tradizionale e mafia imprenditrice, manageriale e mercatista, la Cosa nuova, che avrebbe rinunciato alla violenza sostituendola con la corruzione. La corruzione non è una novità e la violenza, in varie forme, dall’omicidio ai danneggiamenti e alle intimidazioni, non necessariamente agita, ma anche potenziale ed eventuale, rimane una caratteristica della mafia così come si è sviluppata fino a oggi. L’estorsione, come aspetto identitario, emblematico della signoria territoriale, c’è sempre, a cominciare da quelli che chiamo “fenomeni premafiosi” (si praticava al mercato della Vucciria già nel XVI secolo) e convive con le pratiche più moderne, come i traffici internazionali e le innovazioni finanziarie in funzione di riciclaggio e il cyber crime.

La mafia siciliana, in particolare Cosa nostra (che non si identifica con la mafia, perché ci sono altre organizzazioni, come la Stidda o la mafia dei pascoli nel messinese che, secondo la legge antimafia, sono organizzazioni di tipo mafioso, ma la mafia per eccellenza, tanto da identificarsi con essa, è Cosa nostra) ha ricevuto dei colpi abbastanza duri dopo i grandi delitti dei primi anni ’80, con la legge antimafia, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, con il maxiprocesso e, successivamente, con il carcere duro e l’ergastolo ostativo. Questo riguarda la mafia militare e, con il concorso esterno, una parte della borghesia mafiosa: professionisti, imprenditori, amministratori, politici, rappresentanti delle istituzioni.

A mio avviso Cosa nostra attuale se non è in crisi ha certamente problemi. Su tre aspetti: l’organizzazione, l’economia, la politica. L’organizzazione piramidale e verticistica, descritta da Buscetta, con le famiglie, i mandamenti, le commissioni, il capo dei capi, ha subito un processo di destrutturazione, soprattutto ai vertici, la cosiddetta cupola formata dai capi delle commissioni. Attualmente c’è un vuoto di potere, perché nonostante i tentativi, non si è potuta ricostituire la cupola e non c’è un capo dei capi, che ai tempi di Buscetta era un primus inter pares, con i corleonesi era una sorta di monarchia assoluta, con a capo un despota sanguinario che uccideva i concorrenti. Ora ci sono le famiglie; i mandamenti, che comprendono tre o più famiglie, si sono accorpati, perché i capi sono tutti in carcere e sono sostituiti da reggenti, reclutati dalle seconde file. La signoria territoriale, che nella mia analisi sarebbe un dominio tendenzialmente assoluto sulle attività e sulle relazioni sociali in un determinato territorio, ha delle smagliature e sulla scena sono comparsi nuovi soggetti criminali come i nigeriani. Sono autorizzati da Cosa nostra, con il pagamento del “pizzo”, convivono pacificamente, collaborano, per esempio nel traffico di droga?

Dal punto di vista economico non c’è più l’egemonia sul traffico di droga dei tempi di Badalamenti che negli anni ’80 al processo alla Pizza connection fu condannato a 45 anni di carcere. Per il delitto Impastato siamo riusciti a farlo condannare all’ergastolo. Il traffico di droga vedrebbe l’egemonia della ’ndrangheta calabrese, più diffusa e radicata a livello nazionale e internazionale; la produzione e il commercio si sono  polverizzati, a Palermo c’è una sorta di familiarizzazione, nel senso che alla confezione delle bustine concorrono intere famiglie, compresi i bambini (questa è l’economia reale di interi quartieri, in mancanza di redditi legali). Oggi la droga più diffusa è la cocaina e il suo derivato, il crack, che è facile produrre, costa poco ed è usato soprattutto dai giovani, spesso con esiti letali. 

Si è chiuso il flusso della spesa pubblica legata soprattutto agli appalti, ma ora si presentano possibilità consistenti con i fondi europei legati alla pandemia. Se saranno utilizzati con controlli inadeguati sarà facile per le mafie giocare le loro carte.

Sul piano politico, richiamo quello che dicevo prima: intrecciare legami con i vincitori di turno. E recenti vicende giudiziarie mostrano che il gioco spesso riesce, soprattutto sul terreno della corruzione. 

Questo governo si dà la medaglia per l’arresto di Messina, proclama la lotta alla mafia ma taglia le   intercettazioni, limitandole a fatti di mafia e di terrorismo, escludendo la corruzione e vari reati-spie che possono condurre al mondo mafioso, impone il silenzio stampa, avalla la riforma Cartabia che prescrive che reati come il sequestro di persona siano perseguiti su querela di parte, mentre per la Costituzione l’azione penale è obbligatoria. La giustizia da pubblica diventa privata. E poi c’è il problema del carcere duro e dell’ergastolo ostativo…

 

Qual è il Suo giudizio sull’articolo 41 bis e sull’ergastolo ostativo, dei quali tanto si discute, anche sulle nostre pagine?

Nell’ordinamento penitenziario il 41 bis, che prevede il carcere duro, è stato introdotto nel 1986 e il 4 bis, che prevede l’ergastolo ostativo, nel 1991; nascono sulla base della considerazione della mafia come organizzazione strutturata, permanente, i cui affiliati prestano un giuramento di sangue all’interno di un rito di affiliazione con forti connotati simbolici, una forma di battesimo o di ordinazione sacerdotale, per cui si è mafiosi per sempre, tranne nel caso della collaborazione con la giustizia o dell’espulsione (nel gergo mafioso gli espulsi sono definiti “posati” ). Quindi c’è una pericolosità non episodica ma permanente.

Già con la legge antimafia, l’art. 416 bis della legge n. 646 del 13 settembre 1982, si era istituito un doppio binario, con una legislazione specifica che sanciva una distinzione tra i membri di un’associazione di tipo mafioso e il resto della popolazione. E già allora si era parlato di violazione della Costituzione secondo cui “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge” (art. 3), ma si rispondeva che ci si trovava di fronte a due categorie di beni costituzionalmente garantiti: da una parte l’eguaglianza dall’altra il bene della vita e della libertà personale, violati dall’associazionismo mafioso.

Ora il problema della costituzionalità e del rispetto della Convenzione sui diritti umani si è posto per il carcere duro e soprattutto per l’ergastolo ostativo e la risposta è simile a quella precedente: se non c’è una rescissione del legame, che può avvenire solo con la collaborazione, che riguarda anche la segnalazione dei delitti di altri di cui il collaborante è a conoscenza, rimane la pericolosità permanente e non si ha diritto ad alcuni benefici previsti per i detenuti. E si è creduto di risolvere il problema con una soluzione paradossale: il collaborante deve fare una sorta di “dichiarazione dei redditi”, elencando i beni di cui è in possesso, mentre il non collaborante è esentato dalla “dichiarazione”. Una legittimazione dell’omertà e un invito a non collaborare. 

E si hanno casi di mafiosi condannati all’ergastolo ostativo, che tutto lascia pensare che siano diventati un’altra persona: studiano, si laureano, scrivono libri non apologetici (come Giuseppe Grassonelli, coautore con Carmelo Sardo del libro Malerba) ma poiché ritengono una delazione denunciare i delitti di altri, non godono di nessun beneficio, mentre un personaggio come Giovanni Brusca, stragista e autore di delitti imperdonabili, come il sequestro e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, in combutta con Messina Denaro, che credo sia un pentito in base a un calcolo costi-benefici, è a libertà vigilata. 

Il problema è che la pena detentiva dovrebbe “tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 della Costituzione) ma questo non accade non solo per i mafiosi ma per tutti i detenuti. E’ uno dei tanti articoli rimasti sulla carta della nostra Costituzione, che non è “la più bella del mondo” ma la più disapplicata. E per giunta svisata con intrusioni come il titolo V che dà alle regioni la competenza sulla sanità e ha smantellato la sanità pubblica e incentivata quella privata, considerando la salute non un diritto ma una merce. Si sono visti gli effetti con la pandemia,

Ritornando alla mafia, è la concezione che si ha di essa che viene messa in discussione: una realtà permanente, con caratteri di tipo sacrale, o una macchina di delitti che affiora quando compie omicidi e altri atti di violenza o comunque rilevanti sul piano penale? Anche se la Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine transnazionale, varata a Palermo nel dicembre del 2000 e ripresa nel ventennale, è ispirata alla nostra legge antimafia, l’idea di mafia a livello internazionale è più permeata dalla delittuosità che dalla permanenza dell’associazione. 

 

E infine la risposta antimafiosa della società civile: in che direzione dovrebbe muoversi oggi, al di là dell’ipocrita cerimoniale di routine?

Abbiamo alle spalle un’antimafia dimenticata, che è quella delle lotte contadine: lotte di massa, con un progetto sociale, economico e politico, che ho cercato di riportare alla luce con il libro a cui tengo di più la Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile.

Sepolte le ideologie e le formazioni alternative, la società civile è un mondo composito, in cui si trova di tutto: associazioni, comitati, enti del terzo settore, parrocchie, spezzoni di sindacati e di quel che rimane dei partiti, e si è trovata a svolgere un’attività che ha tutti i limiti rilevati dagli studiosi dell’azione sociale nella società contemporanea (per un approfondimento rimando al mio Movimenti sociali e movimento antimafia sul sito del Centro Impastato). Tra i limiti: la monotematicità, la precarietà, la mancanza di un progetto complessivo, anche se parlare di mafia o di mutamenti climatici significa affrontare tematiche con risvolti di carattere generale, in ogni caso ricostruire il contesto.

Abbiamo avuto manifestazioni partecipate dopo i grandi delitti e le stragi, ma le iniziative continuative si sono sviluppate soprattutto su tre terreni: la scuola, l’antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati. Sono novità rilevanti, anche se con limiti significativi. A scuola non si era mai parlato di mafia, ma l’educazione alla legalità è un contenitore troppo generico e rischia di esserlo anche l’educazione civica, se non si entra nel merito della legislazione e delle prassi attuative. E’ il modo di fare scuola che va cambiato con forme di educazione permanente e diffuse sul territorio. L’antiracket, dopo il precedente dei commercianti e imprenditori di Capo d’Orlando, si è sviluppato dopo l’assassinio di Libero Grassi, nel 1991, ma solo in Sicilia e nelle regioni meridionali, mentre estorsione e usura sono diffusi a livello nazionale, e ha dato vita ad esperienze significative, come Addiopizzo, ma pure a soggetti non sempre affidabili. L’uso sociale dei beni confiscati ha un significato strategico perché vuol dire riappropriazione del patrimonio accumulato illegalmente, modi di coltivazione ecosostenibili e posti di lavoro regolari. Ma si affollano problemi che vanno dalle lentezze burocratiche alle pratiche clientelari nella nomina di amministratori giudiziari, soprattutto per quanto riguarda le imprese.

Ritengo che bisogna ridefinire e potenziare queste iniziative, elaborare analisi adeguate che si accompagnino a progetti ambiziosi ma praticabili. Sulle commemorazioni: è vero che spesso sono riti stanchi e ipocriti ma la memoria, come storia collettiva, e non culto di singole figure, ignorando le avversioni che hanno avuto in vita, è fondamentale se vogliamo radicare il nostro lavoro e non inscenare improvvisazioni.

Ci sono in corso iniziative che cercano di affrontare il problema della tossicodipendenza, si sono formati tavoli di confronto tra istituzioni e associazioni di volontariato per realizzare forme di intervento di prossimità, ma il problema di fondo è la condizione giovanile in una città come Palermo e in una società come la nostra con spiccati aspetti mafiogeni: la fragilità e l’inconsistenza di un’economia legale, l’illegalità diffusa, l’estraneità alla vita comunitaria, la dispersione scolastica, la povertà materiale ed educativa. Mettere al centro la condizione giovanile e le forme di emarginazione sociale è fondamentale in una prospettiva di mutamento. In questi anni abbiamo avuto a Palermo figure come don Pino Puglisi e il fratello laico Biagio Conte. Il primo operava  con i ragazzi delle periferie togliendoli dal giro che porta alla mafia; il secondo con il mondo degli ultimi e degli emarginati. Temo che le istituzioni li abbiano usati come ammortizzatori sociali, venendo meno ai loro compiti. E dire che anche loro, a modo loro, hanno calcato la mano sulle inadempienze istituzionali. 

Infine voglio ricordare due esperienze positive. A Castelvetrano non ci sono solo i fedelissimi di Messina Denaro, le logge massoniche, la borghesia mafiosa, c’è l’imprenditrice Elena Ferraro che non ha accolto la richiesta di consociazione dei Messina Denaro e c’è un giovane, Giuseppe Cimarosa. E’ figlio di Lorenzo, condannato per mafia e collaboratore di giustizia, e ha deciso di rimanere a Castelvetrano, correndo gravi rischi. Il suo riferimento è Peppino Impastato: l’anagrafe non impedisce di fare scelte radicalmente alternative. Giuseppe gestisce un maneggio e organizza esibizioni con i suoi splendidi cavalli e varie iniziative. L’ho incontrato più volte, ha partecipato a un incontro al Memoriale, l’ho sentito ieri mattina e mi ha parlato della manifestazione che ha organizzato per le 16 di pomeriggio, 19 gennaio: tutti davanti alla casa dei Messina Denaro con un foglio bianco. Su cui scrivere una nuova storia. Ma c‘è un pericolo: la casa in cui abita Giuseppe con i familiari e i terreni sono stati confiscati e potrebbe arrivare l’ordine di lasciarli e abbandonare la sua attività. Sarebbe una decisione intollerabile. Quel che non ha fatto la mafia, consentendogli di vivere e di lavorare, anche se in condizioni difficilissime e con pericoli immanenti, lo farebbe lo Stato? 

 

centroimpastato@gmail.com
www.centroimpastato.com