Appena qualche mese fa (25 agosto 2022) un reportage di Jessica Bateman sul Guardian ha acceso, per l’ennesima volta, la luce su uno degli aspetti più interessanti e sfaccettati della percezione pubblica riguardante gli eventi della storia e della memoria: quel fenomeno, per alcuni aspetti di costume, per altri versi socio-culturale, non privo di venature e di implicazioni politiche, che va sotto il nome di “jugonostalgia”. Di cosa stiamo parlando? Qualche utile elemento di chiarificazione sui termini è fornito dall’ampia intervista, pubblicata lo scorso 29 novembre sul magazine Kosovo 2.0, nella quale Lirika Demiri pone una serie di questioni a Paul Stubbs, sociologo, con riferimento alla sua ultima pubblicazione, di cui è curatore, dal titolo “Socialist Yugoslavia and the Non-Aligned Movement: Social, Cultural, Political, and Economic Imaginaries” (La Jugoslavia socialista e il Movimento dei Non Allineati: immaginari sociali, culturali, politici ed economici), in uscita il prossimo 15 gennaio per i tipi di McGill – Queen’s University Press. Il 29 novembre è il “Dan Republike”, il Giorno della Repubblica, festa fondamentale del calendario civile jugoslavo, commemorazione del secondo Consiglio Antifascista del 1943 (AVNOJ), con il quale nacque la Jugoslavia socialista.
Non a caso l’intervista in questione fa riferimento, sin nel titolo, al «bisogno di riconnetterci con l’internazionalismo progressista»; si sofferma sulle questioni dell’internazionalismo e del non-allineamento, anche con uno sguardo legato alle problematiche del post-coloniale e del de-coloniale; ma soprattutto propone un’interessante riflessione proprio sul termine in oggetto, vale a dire il fenomeno della “jugonostalgia”. Secondo Stubbs, infatti, «la jugoamnesia è l’oblio strutturato della Jugoslavia. […] Un oblio profondamente strutturato nei discorsi pubblici e politici. […] La jugonostalgia, per me, in realtà, è soprattutto un termine culturale. Vai a Lubiana e trovi bar jugonostalgici. Riguarda i giovani che sono cresciuti con la musica della New Wave jugoslava, per esempio. […] Ma è presente anche in una sorta di progetto politico, secondo il quale possiamo guardare alla Jugoslavia socialista come un modello di come si possa realizzare il socialismo. Per molti versi, la Jugoslavia è stata un esperimento importante. Ma non la si può, propriamente, considerare come un modello, per molte ragioni diverse, e in parte perché non esisteva un socialismo jugoslavo “unico”, omogeneo. […] Lo jugosplaining è una cosa molto più recente che coinvolge un gruppo di studiosi, tutti originari della regione ma residenti all’estero, che intendevano contrastare ciò che vedevano come “eurosplaining”, in un’estensione di critica del “mansplaining” – il modo in cui i generi dominanti, gli orientamenti sessuali dominanti, le culture dominanti impongono le loro visioni del mondo. Era un termine ironico per chiedere – perché non parliamo di più della Jugoslavia? Perché non riportiamo la Jugoslavia nella disciplina delle relazioni internazionali, nello studio dei progetti politici?».
Si tratta, per quanto assai interessante, di una delle possibili letture di un fenomeno, appunto, complesso e sfaccettato come quello della “jugonostalgia”, che, per di più, come tutti i fenomeni che hanno a che fare, al tempo stesso, con i ricordi personali e con la memoria collettiva (e le memorie collettive, anche traslate al piano delle memorie pubbliche), intercetta una quantità di fattori e insiste su diversi piani: il ricordo personale dei tempi felici della giovinezza o dei momenti associati a particolari eventi o vicende della propria vita personale, familiare, sociale; il ricordo, anche questo personale ma legato ad una specifica dimensione sociale e culturale, della propria vita all’interno di un sistema, di avanzamento e di progresso, di tutele sociali, di vita culturale; la memoria collettiva del passato jugoslavo, di specifici momenti che hanno caratterizzato la storia della Federazione, o anche dell’architettura politica e ideologica che essa ha rappresentato, quella singolare esperienza socialista basata sulla organizzazione federale, sull’unità e la fratellanza di diversi popoli e nazionalità, sul pluralismo linguistico e religioso, sull’autogestione come sistema e come modalità di organizzazione della vita produttiva, sull’autodeterminazione, sull’autonomia e il non-allineamento.
Come accennato, questo singolare, ma non inerte, impasto di ricordi e di memorie, attraversa piani diversi: sociale, politico, culturale; e si tinge spesso di una venatura malinconica, di nostalgia, appunto, quella stessa che, in una sua celebre intervista a Sean O’Hagan, pubblicata sempre sul Guardian, la grande artista jugoslava, Marina Abramović, riferiva a “un Paese che non c’è più”: «”Quando le persone mi chiedono da dove vengo”, dice, “non dico mai Serbia. Dico sempre che vengo da un Paese che non esiste più”. […] Sua madre, Danica Rosi, proveniva da un clan molto ricco, molto potente, molto religioso; suo padre, Vojin Abramović, proveniva da ceppi contadini. Entrambi sono nati in Montenegro e hanno combattuto per i partigiani comunisti durante la seconda guerra mondiale; il loro coraggio li ha resi eroi nazionali e ha guadagnato loro posizioni di rilievo nel governo jugoslavo del presidente Tito». Non a caso, la “jugonostalgia” è attraversata, nella sua dimensione che più da vicino fa riferimento alla memoria collettiva, dall’eco, dal riverbero dei grandi fattori costituenti, tradottisi poi in miti costituenti, della Jugoslavia socialista: la resistenza antifascista, l’eroica lotta di liberazione dei popoli jugoslavi, la liberazione e la ricostruzione del Paese.
C’è poi l’altro aspetto, che fa da base e da propellente per la nostalgia del “tempo che fu” e del “Paese che non esiste più”: la dimensione materiale e i rapporti sociali. È significativo che il reportage di Jessica Bateman abbia, come titolo, «“Everyone loved each other”: the rise of Yugonostalgia» (“Ci si voleva bene l’un l’altro”: l’ascesa della jugonostalgia): «Una narrazione comune in questi anni era che Tito, per quasi mezzo secolo, avesse costretto popoli diversi a vivere insieme contro la loro volontà. Ma, a distanza di 30 anni, molti nutrono ancora un profondo affetto per il Paese che non esiste più e ne rimpiangono la dissoluzione. In Serbia, l’81% afferma di ritenere che la dissoluzione sia stata un male per il proprio Paese. In Bosnia, che è sempre stata la più multiculturale delle repubbliche federate, il 77% condivide questo sentimento. Anche in Slovenia, che è stato il primo Paese della ex-Jugoslavia ad aderire alla UE ed è ampiamente considerato come il più “di successo”, il 45% ancora afferma che la rottura sia stata dannosa. Non sorprende che solo il 10% in Kosovo, che non aveva piena “indipendenza” in Jugoslavia, rimpianga la rottura». Un dato che interroga il passato e il presente della regione, il ruolo delle memorie pubbliche e delle élite politiche.
La jugonostalgia è quindi, al contempo, disillusione e rimpianto, ricordo e memoria; ma anche, non senza ambivalenza, richiamo e rievocazione, e porta al proprio fondo una traccia politica sfuggente, non di meno potente e interessante.