Le guerre non bisognerebbe mai iniziarle e, una volta “scoppiate”, bisognerebbe adoperarsi per farle cessare il più presto possibile, ma soprattutto bisognerebbe evitare tutte le iniziative che possono portare al loro “scoppio”. Non per una astratta pretesa di armonia tra i popoli, ma per evitare il costo che le guerre comportano sia per chi le “vince” che per chi le “perde” – se parliamo di popoli e non di governi – sia in termini di distruzione degli habitat che di danni agli uomini e alle donne che ci vivono.
Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, anche con le armi, ma convenire sul fatto che tra le opzioni possibili non c’è solo la guerra e nient’altro che la guerra. Prima, durante e oltre la guerra ci sono tregua, diplomazia, mediazione, costruzione di alternative politiche e sociali, difesa delle vite e delle condizioni di esistenza delle popolazioni, convivenza tra etnie, lingue e culture diverse. L’autodifesa armata del Rojava ha il suo presupposto nel confederalismo democratico promosso da Ocalan. Nessuna di quelle esigenze è stata invece rispettata dalle parti coinvolte nella guerra in Ucraina.
Putin non pensava a una guerra quando ha invaso l’Ucraina. Pensava a una soluzione come quella che oltre cinquant’anni prima era riuscita a Breznev in Cecoslovacchia: molti carri armati, poco sangue e un cambio di regime imposto con la forza per arrestare e riequilibrare la marcia verso est della Nato. La resistenza dell’Ucraina, del suo esercito e delle sue milizie lo ha costretto a cambiare i piani: non a ritirarsi e chiedere scusa, ma a ripiegare su una vera guerra, a cui con tutta evidenza non era preparato. La sua devastante vittoria in Cecenia gli aveva fatto credere di poter risolvere la questione con un altro massacro.
Dall’altro lato del fronte si è puntato fin dall’inizio sulla temporanea superiorità ucraina, supportata dal sostegno politico, ma soprattutto militare, della Nato, degli Usa e dell’Unione Europea, per sferrare un colpo decisivo. Ben sapendo che questo avrebbe innescato un confitto molto lungo, che nelle dichiarazioni inziali di Biden (poi corrette) avrebbe dovuto portare alla destituzione di Putin o addirittura alla dissoluzione della Federazione Russa.
Non si è messo in conto quanto una guerra prolungata e combattuta con sempre più uomini e armi (fino al limite della minaccia e del sempre possibile ricorso a quelle nucleari) sarebbe costata alle popolazioni dell’Ucraina e alla gioventù della Federazione Russa mobilitata a partire dalle sue periferie. La mobilitazione di entrambe le parti (e dei loro fans, soprattutto in Occidente) ha offuscato finora lo sguardo sulla devastazione del territorio, a est e a ovest del fronte e sul futuro di quel Paese. Ancora oggi si pensa – qualcuno pensa, e si mette in viaggio per prenotarne una quota – al business della ricostruzione, mentre la distruzione dell’Ucraina è ancora in pieno corso. E questo senza mettere in conto il suo indebitamento presente e futuro, pagabile solo in parte con la svendita delle sue risorse. E immemori del passato, si progetta di farne pagare i danni alla Russia, come a Versailles, dopo la Prima Guerra Mondiale, si era pensato di farli pagare alla Germania…
L’ostinazione della Russia non ha provocato, come forse sperava Putin, una crisi dell’Unione Europea e meno che mai la sua “nazificazione”, come ritiene il generale Mini, ma i regimi dispotici di molti suoi membri ne sono stati rafforzati, grazie soprattutto alla militarizzazione imposta dalla Nato. Un dominio in cui è facile entrare, ma da cui molto difficile uscire, o anche solo disobbedirgli, come insegna la sorte toccata ad Aldo Moro. Ma che il più democratico regime europeo abbia scambiato la sua adesione alla Nato con la consegna dei dissidenti curdi al tiranno Erdogan è cosa da non sottovalutare.
La guerra in Ucraina è un esito scontato dell’allargamento passato, in corso e futuro della Nato, un processo di cui l’Ucraina è una componente essenziale: il come e il quando erano (in parte) ignoti. Ma l’Ucraina era già membro di fatto della Nato, con le esercitazioni congiunte (“L’abbaiare ai confini della Russia”), il suo potenziamento bellico e il ruolo affidato, dopo Maidan, alle sue milizie (naziste? Sì) nel fare una vera e propria guerra alle aspirazioni autonomistiche delle sue province orientali.
E’ vero che nel confronto tra Ucraina e Federazione Russa non contano solo le armi, la loro potenza, la loro precisione, la loro quantità. Conta anche il “fattore umano”: il fatto che molti dei combattenti ucraini considerino ora una questione vitale la riconquista dei territori sottratti – anche se avevano fatto ben poco per fermare il bombardamento di otto anni del Donbass e la discriminazione dei loro concittadini russofoni – mentre uno spirito analogo non anima certo i coscritti a forza delle forze armate russe. Ma fino a che punto si potrà evitare di mettere in conto anche il “fattore disumano”: le centinaia di migliaia (ormai) di morti da entrambe le parti, la distruzione, in gran parte irreversibile, dei territori contesi, a qualsiasi delle due parti rimangano poi in mano. E un futuro non di prosperità (che l’Unione Europea non fornisce più nemmeno ai suoi membri), ma di miseria, di debiti, di rancore e di soggezione.
L’Ucraina non uscirà da questa guerra, se mai ne uscirà, più democratica e “denazificata”, ma più autoritaria e militarizzata, come già è ora e con partiti di opposizione e sindacati fuorilegge, scioperi proibiti, informazione controllata, giornalisti indipendenti perseguitati, servizi segreti e ambasciate straniere onnipotenti.
Quanto alla Russia, l’esito perseguito, se è la caduta di Putin, non consegnerà il potere a un’élite più conciliante e aperta, bensì a figure ancora più feroci e guerrafondaie. Se è la dissoluzione della Federazione, essa lascerà il campo a una “grande Libia”, con le nazioni del dissolto impero contese tra le potenze vicine e lontane, e anche ubique, come il mai dissolto Isis. Qualcuno ha forse pensato di poter parare il colpo senza adoperarsi da subito per la pace? E non sarebbe forse l’Unione Europea l’attore più adatto a proporre una mediazione, se non fosse anch’essa parte del conflitto? Ma non si può mediare partecipando alla guerra: questo, almeno, bisognerebbe saperlo.