Il collasso climatico è parte di uno sconvolgimento ambientale e sociale molto più ampio, che ci impone di riflettere sui valori e sulla direzione intrapresa dalla nostra civiltà industriale occidentale. L’ecologia induista, più antica di quella buddhista e giainista, può aiutarci a dare nuove basi epistemologiche e filosofiche per abbandonare i presupposti della crisi ecologica dovuta al nostro modello di sviluppo, di produzione e di consumo. Ne parliamo con Gloria Germani, ecofilosofa impegnata da sempre nel dialogo tra Occidente e Oriente, allieva del filosofo Serge Latouche, dell’ecologista svedese Helena Norberg Hodge e del giornalista Tiziano Terzani, del cui pensiero è tra le massime esperte. È attiva nei movimenti deep ecology, nella Rete per l’Ecologia Profonda, in Navdanya International e nell’Associazione per la Decrescita. Dagli anni 2000 si interessa vivamente al campo dell’educazione frequentando come genitore e attivista le scuole steineriane e dal 2017 è funzionario coordinatore del Progetto Alice Universal Education School per un’educazione non-dualistica, eco-centrica ed olistica. È praticante dell’Avdaita Vedanta (Via della Non-dualità), la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta dell’induismo.
Rifaccio una domanda già fatta: l’induismo ha sviluppato una visione ecologica o è la visione ecologica che è parte integrante dell’induismo? Si può parlare di induismo ecologista o di ecologia induista?
Credo che il continente asiatico da millenni abbia pensato in termini di relazioni, di interconnessioni. Ha cioè sviluppato ciò che noi – con una prospettiva settoriale e “scientifica” – chiamiamo ecologia. Quindi mi sembra molto azzeccato parlare di “ecologia induista” e guardare a questa cultura millenaria per avere delle guide per il nostro difficile tempo. Una piccola precisazione: il termine Hinduism è stato inventato dagli Inglesi nell’Ottocento per nominare una tradizione culturale, ancora vivissima, che affondava le sue radici nell’antichità. Nei suoi tratti essenziali, questa civiltà molto colta era già sviluppata nel 3 millennio a.C. o forse prima. L’induismo è un insieme di credenze vibranti, niente affatto dogmatico. Per descriverlo, preferisco prendere a prestito un brano di Tiziano Terzani che – secondo me – descrive l’essenza dell’induismo meglio di centinaia di manuali sull’argomento: «L’India, a meno di odiarla al primo impatto, induce questo senso di esaltazione: fa sentire ognuno parte del creato. In India non ci si sente mai soli, mai separati dal resto. E qui sta il suo fascino. Alcuni millenni fa i suoi saggi, i rishi, ‘coloro che vedono’ ebbero l’intuizione che la vita fosse una. Questa esperienza, rinnovata di generazione in generazione, è il nocciolo del grande contributo dell’India all’incivilimento dell’uomo e allo sviluppo della sua coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle mille forme che è la vita. In India questo pensiero non ha più bisogno di esser pensato. È nel comune sentire della gente. È nell’aria che si respira».1
Quando, per la prima volta, ho messo piede in India, ormai 30 anni fa, ho provato esattamente questo. Non c’è stato bisogno di nessun libro, nessuna conferenza. La certezza della non-dualità era per le strade, tra la gente, nell’inscindibilità della bellezza sublime e della bruttezza, nell’inscindibilità della vita e della morte, nell’impermanenza di tutto; tutta la vita è una.
Quali sono le differenze tra ecologia induista e buddhista?
Non ritengo che ci siano differenze sostanziali tra le due forme di ecologia: induista e buddista. Dobbiamo ricordare che il messaggio del Buddha si innesta intorno al 2.600 a C. come una riforma dell’induismo ma ne conserva, com’è naturale, lo schema di pensiero, l’interpretazione essenziale della Realtà. Molti dei concetti rimangono i medesimi.2 La concezione del tempo non è lineare (come per noi) ma circolare, e presente, passato e futuro non hanno il valore che hanno per noi. Il progresso non è lo scopo delle azioni umane, visto che tutto si ripete e l’avanzare è considerato insignificante, come le folate del vento. Per entrambi, la realtà percepita dai sensi non è presa per vera, non è la Realtà Ultima, anzi, è maya: illusione, il seducente potere che crea l’illusione della solidità delle cose. Per ambedue non esiste una separazione tra ciò che è psichico e ciò che è fisico, perché – come ci sta insegnando oggi la fisica – sono entrambi formati da energia vibrazionale. Ogni cosa sia esterna che interna non è permanente, non è una sostanza, ma un aggregato di energia che si forma e si dissolve in continuazione, interagendo tra e con tutto il resto, e non permane mai. L’induismo parla di questa Realtà ultima della vita come “pienezza” (purnam) mentre il buddismo la nomina come “vuoto” (sunyata), ma è una questione meramente terminologica perché sia la pienezza che il vuoto sfuggono all’attitudine logico-linguista, non si fanno racchiudere dalle parole o dal ragionamento. E di questo tanto induisti che buddisti sono ben consci. Infatti è proprio per questo che danno tanta importanza alla meditazione, allo yoga, come una pratica che permette di andare oltre la mente e sperimentare l’essenza della vita. Per ritornare all’ecologia, essa è una conseguenza evidente e semplicissima. Se capisci che tutto è Uno, oppure – in termini buddhisti – se capisci davvero l’origine interdipendente di tutte le cose, non puoi che essere molto rispettoso ed attento verso l’ecosistema, verso il cosmo intero. Esseri senzienti, animali, vegetali, minerali fanno parte di un unicum che è la vita. Non ci sono differenze.
Cosa si intende, nell’induismo, per “logica cosmica” (Sanathana Dharma)?
Sanathana Dharma è la maniera in cui gli abitanti dell’India chiamano la loro cultura, l’induismo. È la legge, l’ordine eterno, la verità che permane. Dharma è una parola non facilmente traducibile. Viene dalla radice sanscrita “dhri” che significa “sostenere”, o “ciò che è integrale a qualcosa” (il dharma del fuoco è il suo essere caldo). Quindi il Sanathana Dharma è ciò che conduce alla vera essenza dell’universo e, allo stesso tempo, lo mantiene in esso. Stando così le cose, è chiaro che per la cultura indù non c’è nessuna ansia di progresso. La filosofia, l’ “amore della saggezza” non è quel susseguirsi di idee, una che nega l’altra, che ci insegnano a scuola e all’università (su indicazioni di Hegel), una sorta di autostrada dove l’ultimo in ordine di tempo si mette sul podio del Più Vero e del Più Bravo. Di nuovo, devo prendere a prestito le parole del mio maestro Terzani: “In India tutti sembrano saperlo. La filosofia qui non è una forma di ginnastica, non è il monopolio dei colti, non è riservata alle accademie, alle scuole. La filosofia in India è parte della vita, è il filo di Arianna per cui uscire dal labirinto dell’ignoranza. La filosofia è la religione grazie alla quale gli indiani contano di raggiungere la salvezza che nel loro caso è conoscenza. Non la conoscenza “utile”, quella per manipolare, possedere, cambiare, dominare il mondo (la scienza non è mai stata il loro punto forte); bensì, come dicono i testi sacri, “quella conoscenza che una volta conosciuta, non lascia più niente da conoscere”: la conoscenza di sé”.3 Queste non sono parole ad effetto, ma Terzani tocca con molta precisione l’essenza della filosofia della Non-dualità Advaita Vedanta, che è il cuore eterno, il Sanathana Dharma della cultura indiana, in contrapposizione al pensiero moderno occidentale, che è sempre scienza dell’utile, sapere utilitaristico. Torneremo su questo dopo, per ora vorrei sottolineare come Gandhi si ritenesse un indù sanathani, cioè, fosse completamente allineato con questa visione del mondo che permea l’India da millenni. La sua dottrina della nonviolenza (sia nei confronti dei nemici, sia nei confronti della Natura) è incomprensibile senza questa visione filosofica.
Per capire meglio in che cosa consista, occorre richiamare la prima e più importante distinzione fatta dagli indù: quella dei quattro fini della vita.4 Il primo scopo è artha, che significa “cosa”, ma anche “l’interesse”, “il proposito” che sempre guida l’agire umano e, in modo più concreto: l’ottenimento della ricchezza e il possesso di beni materiali, la prosperità e il successo. Il suo ambito riguarda la sfera dell’economia, della politica, della diplomazia. Accanto a questo c’è il secondo scopo: kama, l’amore e il piacere, il bisogno affettivo e la sua soddisfazione, la realizzazione dell’unione tra due persone, la sessualità, il potere della generazione. Il terzo scopo è il dharma, che comprende tutti i doveri etici considerati dal punto di vista del bene comune e rappresenta un naturale freno ai primi due scopi. Dharma riguarda perciò le usanze, le norme di comportamento, le virtù, la giustizia, la misericordia, l’imparzialità. Per noi occidentali, i primi tre scopi esaudiscono tutto quello che viene sperimentato nel mondo. Ma la tradizione indiana individua accanto al trivarga (il gruppo dei tre), un quarto scopo, che si pone come rivoluzione degli altri tre. È chiamato moksha: liberazione, libertà, ma anche distacco, realizzazione, riposo, felicità. Conoscendola, si diviene saccidananda, un insieme di essere, coscienza, beatitudine, in uno stato di chiara presenza al di fuori del tempo. Tutta la civiltà indiana ha questo fulcro: raggiungere lo stato in cui si abbandona l’egotismo, il mondo illusorio della materia e dei possessi, quando il nostro essere profondo si dilata fino a fondersi con l’essere cosmico. È importante sottolineare per il pubblico occidentale, che la filosofia indiana non è un’astrazione dal mondo, una spiritualità staccata nell’empireo, tutt’altro. Solo dopo aver realizzato e portato a compimento i primi tre fini – cioè dopo aver realizzato pienamente la propria affettività, la propria progettualità, e rispettato i propri doveri relazionali verso la comunità e i beni comuni, allora, e solo allora, si può accedere al moksha, alla vera libertà, alla vera felicità.
Per aiutare in questo compito arduo e progressivo, il Sanathana Dharma, prevede che la vita di ciascuno debba essere scandita da quattro fasi o Ashrama. Il primo stadio è Brahmācarya la fase del discepolo, colui che deve apprendere, attendere e servire il suo guru; il secondo è quello del Grihastha, il padre o la madre di famiglia, che si impegna nel trivarga e consegue la propria realizzazione matrimoniale, sociale ed insieme etica. Il terzo è quello del ritiro nella foresta per meditare, Vanaprastha, in cui l’uomo e la donna, una volta che i figli sono sposati, abbandonano tutte le ansie del mondo e si ritirano nella foresta per meditare. Infine c’è lo stadio del rinunciante, Saṃnyāsa, della ricerca individuale della saggezza ultima, per squarciare il velo dell’ignoranza che ci avvolge. Il moksha è per gli ultimi due stadi, non per il primo e il secondo.5
Da molti anni sei una seguace dell’Advaita Vedanta, la Via della Non-dualità, il culmine del pensiero induista che afferma che tutto è Uno. Come si inserisce la visione ecologica?
La via della Non-dualità è la filosofia principe dell’Induismo, a cui tutte le altre visioni convergono, come hai precisamente detto. È la filosofa dell’Uno, per cui tutto, assolutamente tutto (compreso il nostro Ego, che ha solo una realtà effimera) fa parte di quell’unica essenza che viene chiamata Brahman: il sacro potere della vita. Non c’è un fuori e non c’è un dentro, perché tutto è Uno. L’induismo riconosce infatti oltre tre milioni di divinità, tra cui moltissime forme animali, ma non è affatto un politeismo (cosa di cui è stato spesso accusato) perché quel Brahman è identico alla parte più profonda del tuo essere. Tat twan Asi : “Tu sei quello” , ripetono le grandi sentenze delle Upanishad, commentate attraverso i millenni dai maestri del Vedanta tra cui forse il principale è Sankara, vissuto nel VIII secolo d.C. La coscienza individuale profonda (atman, che è diversissimo dall’Ego) è identica alla coscienza universale, il sacro potere che genera continuamente il cosmo. Queste posizioni sono bestemmie per la visione cristiana, tanto che molti mistici occidentali come Eckhart, Tulero o Giordano Bruno sono stati condannati e anche bruciati. Eppure, come accennavo prima, questa visione è completamente ecologica, l’ambiente, gli animali, i pesci, i vegetali, i minerali, fanno parte del sacro potere e fanno parte di una sola totalità.
1 T.Terzani, Un altro giro di Giostra, Longanesi, 2004, p. 153.
2 Si vedano gli importanti saggi di A.Coomaraswamy, in particolare, Induismo e Buddismo, Rusconi, 1987.
3 T.Terzani, Un altro giro di giostra, p.160.
4 H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, cit., pp. 51 sgg.
5 Sul quattro stadi della vita (ashramadharma), vedi le splendide pagine di H.Zimmer, cit. p. 138-146