Il prossimo 19 gennaio 2023 a Palermo sarà presentato alla Biblioteca dell’Istituto Gramsci il volume, curato dal  Dipartimento Antifascismo del Partito della Rifondazione Comunista, “Dodicesima disposizione” (Bordeaux edizioni, Roma 2022). All’incontro-dibattito parteciperà la nostra Redazione locale con Daniela Musumeci. Inoltre prenderanno parte al dibattito: Armando Sorrentino,  Fausto Melluso, Rita Scapinelli (fra i curatori del libro) e Giusto Catania

 

IL LIBRO

Il libro attraversa tutta la storia del fascismo, italiano e non solo, suddividendola in tre tappe: il fascismo storico e la Resistenza (1919-1945), il neofascismo (1948-1990 circa), il fascismo del secondo millennio (Forza Nuova, Casapound), allo scopo di mostrarne la continuità e la pericolosità ancora attuale. 

Il titolo riprende le disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione, e in particolare il divieto di ricostituzione del partito fascista, immediatamente e ripetutamente infranto con la complicità delle istituzioni preposte all’ordine pubblico, dei servizi segreti, di numerose forze politiche atlantiste, negli anni della guerra fredda ma non solo.

Ci si muove dalla definizione del Rapporto Dimitrov del 1935: “Il fascismo riesce ad attirare una parte delle masse perché fa appello demagogicamente ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più sentite. Il fascismo non attizza soltanto i pregiudizi profondamente radicati nelle masse, ma specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e qualche volta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie”. Insomma, per dirla con P. Togliatti, è “un regime reazionario di massa” e non una mera dittatura imposta con le armi. E l’analisi del ‘35, purtroppo, si attaglia ancora bene al partito del 31% che oggi governa l’Italia. Se essa è corretta, allora il fascismo in un certo senso non è mai finito, se mai si è trasformato in accordo con le trasformazioni del capitale, e rappresenta, come sosteneva P. Gobetti, “l’autobiografia della nazione”. Dunque, anche l’antifascismo non può allentare la guardia, ma deve evolversi secondo percorsi non soltanto di resistenza ma anche di proposta e di alternativa.

Leggiamo alla fine del libro, dall’intervista a Saverio Ferrari dell’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre: “L’antifascismo ha perso campo fra i giovani, nella società, nelle istituzioni e anche sul piano storico. Il rilancio di un movimento antifascista diventa dunque una necessità. Per farlo deve uscire dal celebratismo che lo ha fin troppo contraddistinto. Deve saper essere soprattutto una parte di un più generale movimento in difesa e rappresentanza delle condizioni materiali di vita delle classi popolari. Un movimento di trasformazione sociale”. Bisogna che ridiventiamo coraggiosi!

 

IL CORAGGIO

Diceva Don Abbondio: “Il coraggio uno non se lo può dare”. Invece forse sì… Quando vidi per la prima volta il film di Nanni Loy Le quattro giornate di Napoli, mi chiesi che cosa avrei fatto io, lì, allora: avrei trovato il coraggio di oppormi? Non lo so. So però che ci sono tantissimi esempi di donne, maestre di fierezza e di ribellione, nella nostra storia e parecchie citate anche nel libro.

 

LE MAESTRE

In duemila si riunirono a L’Aja nel 1915 per il Primo Congresso Internazionale per la Pace. E Rosa Luxemburg cadde a Berlino nel 1919 durante la rivoluzione spartachista. 891 furono le donne sottoposte a processo dal Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato tra il 1926 e il ’43. Le partigiane combattenti furono 35.000 e le partecipanti ai Gruppi di Difesa delle Donne 70.000. A migliaia furono torturate, come Irma Bandiera, detta Mimma, deportate in Germania, fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento e 19 ricevettero la Medaglia d’Oro al valor militare. Nell’attentato di via Rasella del 1944, che scatenò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, c’era una donna: Carla Capponi. E un’altra donna, Lia Pasqualino Noto, che distribuiva l’Unità clandestina, era presente con Carlo Lizzani all’assalto al liceo Dante Alighieri, sempre a Roma e sempre nel ’44, quando fu colpito alle spalle e ucciso lo studente Massimo Gizzio. Il 2 giugno del ’46 votarono 13 milioni di donne a fronte di 12 milioni di uomini e numerose donne furono elette all’Assemblea Costituente e poi nel Primo Parlamento. Una scrittrice, Igiaba Scego, protestò insieme con l’Anpi contro l’erezione di un monumento al Generale Rodolfo Graziani, responsabile delle stragi in Etiopia e al servizio dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Una donna, Margherita Clesceri, e una bambina, Vincenzina La Fata, perirono nella prima strage di Stato a Portella delle Ginestre nel ’47 e tante altre furono ferite o uccise negli attentati neofascisti susseguitisi negli anni di piombo della “notte della Repubblica”, come l’ha chiamata S. Zavoli. Fino ad arrivare alle “Madri Antifasciste” di Roma che da anni raccolgono e aggiornano l’elenco delle aggressioni del nuovo fascismo, dal 2014 al 2021 e oltre.

E in Sicilia, abbiamo altre figure notevoli di cui il libro non parla: le donne dei Fasci Siciliani tra il 1892 e il ’95, quelle che occuparono le terre nel primo e nel secondo dopoguerra, come Gina Mare e Lucia Mezzasalma, Maria Occhipinti che organizzò a Ragusa nel ’45 il movimento “Non si parte” contro la guerra e poi le ricamatrici, le raccoglitrici di gelsomini, di nocciole, di mandorle, le operaie della Manifattura Tabacchi… Tutte maestre di coraggio!

 

NON CHIAMATELO POST-FASCISMO

La memoria storica è monito per il presente (e nella memoria interessantissime le pagine di controinformazione sul delitto Moro). Il presente, non solo italiano ed europeo, in un mondo de-globalizzato dalle guerre e da nuovi squilibri geopolitici, non è il governo poliziesco a partito unico che irregimenta con facilità un tessuto sociale circoscrivibile per categorie monolitiche; non è neppure il neofascismo terroristico degli anni Settanta che si incunea tra le maglie di un malessere diffuso e senza sponda politica, ulteriormente destabilizzando; ma non è neppure un post-fascismo ideologicamente asservito ad un supposto post-capitalismo. Quel suffisso “post” rischierebbe di attenuarne l’eversione e la pericolosità. È piuttosto un fascismo in trasformazione, così come in trasformazione è il capitalismo. Potremmo forse parlare di trans-fascismo e trans-capitalismo. Certi caratteri permangono: il suprematismo, il nazionalismo, il razzismo, un populismo demagogico di facciata che nasconde l’asservimento agli interessi forti delle multinazionali (vedi la nostrana vicenda delle accise sui carburanti). Scompaiono (mai del tutto, però) olio di ricino e manganello, spranghe e pistole, nei più casi superflui entro una “microfisica del potere” anonimo e diffuso, come insegnava M. Foucault, e introiettato oggi con modalità inedite grazie al “capitalismo della sorveglianza” informatica, di cui parla Shoshana Zuboff.

 

CHE FARE?

Se quanto detto è coerente, che fare?

Operare su due piani:

  1. Quello della struttura, ad esempio prendendo spunto dalle proposte di T. Piketty per un socialismo partecipativo o dalle analisi dell’economista indiano Amartya Sen per un’autentica cooperazione internazionale;
  2. Quello sovrastrutturale, con il progetto di una politica antiautoritaria, che superi il concetto angusto e feroce di nazione, ispirata al confederalismo democratico dei curdi ed al movimento delle donne curde Jineology, “Donna, Vita, Libertà”.

 

CIASCUNO FACCIA LA SUA PARTE

A fronte dei conflitti armati odierni, più di sessanta nel mondo, delle inimmaginabili violazioni dei diritti umani, dei mai sopiti razzismi, dello sprezzo per le vite dei migranti, della devastazione ecologica inarrestabile, delle abissali divaricazioni e ineguaglianze sociali artatamente accresciute nei paesi ricchi, ci si sente impotenti. Pochi si lasciano coinvolgere contro la guerra. L’Ucraina non è il Vietnam: non ci sono buoni e cattivi, ma due imperialismi a confronto, quello occidentale e quello sino-russo, che si fronteggiano per la spartizione delle risorse del pianeta, ma questo molti non vogliono sentirselo dire. La rivoluzione dei giovani in Iran – e ancor meno quella delle donne curde – non riempie le piazze europee. Il movimento Fridays for Future, che pure era stato oceanico prima della sindemia, non ha influito di una virgola sulle politiche di sfruttamento di vite ed energie da parte delle multinazionali.

Come si può inventare una nuova Resistenza contro i nuovi fascismi? Che ciascuno faccia la sua parte, diceva G. Falcone a proposito della lotta alla mafia. Ma vale anche in questo caso.

Il volontariato, per esempio, è già una forma di resistenza: Emergency, Medici Senza Frontiere, Greenpeace, Save The Children, SOS Mediterranée, Refugees Welcome, la Comunità di sant’Egidio… non operano solo nel concreto per alleviare sofferenze, ma propongono una diversa visione del mondo e della società, fondata sulla cura e l’empatia anziché sulla proprietà e il profitto.

 

UN ACCORGIMENTO

La vera difficoltà a sinistra è che, mentre si è capaci di una lucida analisi dei meccanismi del capitalismo trasformato, non si è altrettanto capaci di proporre un’alternativa. L’abolizione della proprietà privata e l’autogestione collettiva del bene comune possono essere praticabili, dal basso, in piccole comunità. Ma come gestire le grandi reti di comunicazione e le altre grandi infrastrutture transnazionali? Non abbiamo risposte, eppure occorre essere propositivi: non basta denunciare gli orrori perpetrati dalle destre, bisogna realizzare esempi concreti, anche partendo da piccole realtà, dimostrare che un altro mondo è possibile, o meglio, indispensabile. 

In questo senso, potremmo prendere a modello il Kurdistan, il Chiapas o la Palestina, anche se quest’ultima è così vessata da essere più vincolata all’autodifesa che al progetto, almeno al momento…

 

UN ERRORE DA EVITARE

L’errore in cui non dobbiamo cadere è quello di imbastire un discorso solo politico che non preveda una radicale trasformazione socio-economica (è l’empasse del PD) ovvero quello della frammentazione e dell’arroccamento su posizioni incomunicanti di presunta incontaminata purezza (è il solipsismo della Sinistra Radicale). Occorre invece adottare il paradigma della complessità, il prospettivismo, aprirci all’ascolto, affinché da una molteplicità di posizioni diverse ma affini scaturisca un nuovo progetto inedito ed efficace.