Troll, il nuovo lungometraggio uscito ai primi di dicembre su Netflix, è un mix tra fantasia e realtà, che unisce però qualche aspetto già noto nella storia del cinema. La finalità è quella di sensibilizzare sulla crisi ecologica, ma nel sottotesto si intravede anche lo scollamento totale tra le società occidentali e la Natura nel suo più profondo mistero.
Il film riprende una delle più classiche mitologie norrene, quelle appunto legate alla presenza dei troll, esseri dalle fattezze umane che si pensa vivano soltanto nelle favole, proprio come succede anche a Nora Tidemann, cresciuta con questi racconti narrati dal padre Tobias, grande esperto di mitologia norrena. La ragazza poi cambia e smette di credere a questi racconti anche per via del presunto squilibrio mentale del padre, che si dice creda fin troppo a questi racconti di fantasia. Ma siamo sicuri si tratti di una semplice menzogna e leggenda, lontana dalla realtà?
Il film riabilita nozioni storiche risvegliando il sapore esoterico delle mitologie norrene, schiacciato nei secoli dalla sempre più pervasiva cristianizzazione della Norvegia. “Sapevate che la Norvegia sanzionava pesantemente i contatti con i troll o presunti tali fino al 1840? In Norvegia, i troll giravano liberi solamente un migliaio di anni fa” – ci ricorda Tobias – fin quando arrivò Olaf II Haraldsson, noto nella cultura moderna norvegese con il nome di Olav den Hellige (Olaf il Santo), Re di Norvegia dal 1015 al 1028, tra i più spietati sostenitori della cristianizzazione del Paese. Si convertì al cristianesimo e si sforzò di consolidare i suoi domini e di propagare la fede cristiana, all’epoca in secondo piano rispetto alle credenze e alle pratiche druidiche norrene. Per questo Olaf ordinò la costruzione di un buon numero di chiese in tutto il territorio sotto il suo controllo. Fu beatificato dopo la morte, in riconoscimento della sua difesa della fede di Cristo nel suo regno e delle sue imprese, che includevano eventi incredibili come battaglie contro i troll. Le storie al riguardo vengono interpretate dagli studiosi come simbolo del trionfo del cristianesimo sulle “credenze pagane”. Olaf il Santo eliminò ogni cosa incompatibile con la fede cristiana, tra cui anche i troll. Grazie alla fama raggiunta dai presunti prodigiò, raccontati oralmente o in poesie come il Glælognskviða, il sanguinario re vichingo fu canonizzato dalla Chiesa nell’anno 1041 e in seguito riconosciuto come santo e martire dalla Chiesa Ortodossa.
Le raccolte di racconti popolari, tutte le favole, tutte le opere d’arte dell’epoca iniziarono a rappresentare i troll come stupidi, meschini, cattivi e inferiori agli esseri umani. “Tutte le storie su di loro sono state scritte per diffamarli e prenderli in giro e possiamo ringraziare Asbjørnsen e Moe per questo” – ci ricorda ancora Tobias. Più recentemente anche l’amato Tolkien, nel suo romanzo Lo Hobbit, li denigra rappresentandoli come esseri dall’immensa forza fisica, ma dotati di scarso intelletto[1].
In “Troll”, la figura di questi esseri viene riabilitata riprendendo la tradizione norrena e diventando la metafora di un pianeta che si ribella al mondo costruito dagli occidentali, al loro modello di sviluppo, all’estrattivismo, al positivismo ottocentesco carico dell’ottimismo cristiano e degli strumenti della scienza, che hanno inaugurato una visione anti-ecologica della vita. Quello che più si evidenzia è lo scontro tra chi si affida esclusivamente alla scienza e chi invece ai miti e alle leggende. Il film spezza una lancia a favore di chi, credendo in quelle che noi chiamiamo oggi “superstizioni”, è in grado di cogliere una dimensione più profonda della vita attraverso il concetto di ipernatura, una suggestione così forte da essere un punto di partenza insostituibile per cogliere gli equilibri esistenti.
Chi crede ai miti e alle leggende – nel film, Tobias – viene deriso perché i troll non possono esistere, visto che non sono mai state trovate prove biologiche e tracce di DNA. Quel determinismo biologico impedisce di rendersi conto che non tutto ciò che è vivo possiede un DNA (cieli, montagne, pietre, minerali, cristalli). Chi crede a miti e leggende mostra una profonda sensibilità ecologica (per esempio si oppone alla distruzione delle montagne per costruire strade), un profondo aspetto intuitivo del sapere e un approccio nonviolento, di studio, di precauzione di fronte alla creatura misteriosa che si ritrova davanti. Quando avviene il contatto Tobias critica aspramente il modo di porsi del governo verso l’alterità, percepita subito come un nemico, un pericolo per l’incolumità collettiva o come una cosa da distruggere pur non conoscendola e non sapendola nemmeno definire. Chi si affida a miti e leggenda è l’unico che sa definirla, che la conosce e che da sempre viene ostacolato fino ad essere rinchiuso in passato perché “pazzo”. È colui che prova con successo ad avere un contatto pacifico, ma gli viene impedito dai colpi sparati dai carrarmati dei militari, provocando un incidente che lo porterà alla morte.
Le antiche saggezze, spacciate per superstizioni nella post-modernità invasa dalla tecnoscienza, vengono considerate ridicole, ma in realtà sono le uniche a esercitare uno sguardo epoptico, ovvero in grado di “guardare al di sopra”, per ricostruire il passato, rintracciare un’identità e attivare un processo di conoscenza, in cui l’io lascia il posto nella coscienza a una visione al di là dei propri ricordi e del proprio tempo.
Nel frattempo è interessante vedere nel film come, mentre le soluzioni proposte dalle antiche saggezze vengono ignorate, si continua a perseguire l’irragionevole via dello scontro frontale con il troll, ovvero quella del conflitto. Ancora più interessante è vedere, di fronte al pericolo percepito e sempre più incombente, un militare che prega per essere salvato.
Anche in questo caso si nota il contrasto tra le due visioni di mondo: una immanente, che si sporca le mani con la realtà e che punta a cambiarla e l’altra fatta di puro pragmatismo, pura azione, la ricetta del “si è sempre fatto”, zero apertura alle altre possibilità. Nel momento del bisogno però si affida al trascendente, a qualcuno al di fuori di lui per cambiare una situazione che non è stato in grado di pensare e dunque di cambiare. Uno muore per causa di altri, l’altro muore per un pericolo di cui lui è la causa.
“Troll” ci mostra che dai tempi medievali ad oggi, l’uomo occidentale non è cambiato molto: distrugge ciò che non conosce, conosce solo ciò che possiede ed è esente da qualunque colpa perché il problema è sempre fuori di lui. Ci invita a decolonizzare noi stessi, ad abbandonare le nostre certezze e le presunzioni di universalità. Il film punta il dito anche sulla manipolazione dell’informazione, sulla campagna mediatica che vuole brutalizzare il troll: il bambino che viene salvato proprio dal troll secondo la notizia del TG è colui che conferma quanto sia brutto e pauroso. Il linguaggio bellico vuole la guerra e prepara alla guerra. “Una minaccia che va fermata con la forza, non con le formule magiche” dice la Prima Ministra nel suo discorso alla nazione, definendo “formule magiche” quelle che in realtà sono le soluzioni più ragionevoli: conoscenza e prevenzione del conflitto, percepite invece come utopiche e impensabili, come fiabe al limite dell’assurdo. Eppure il discorso bellicoso della Prima Ministra si conclude con la frase: “Dio benedica la nostra amata Patria”.
[1] J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, Capitolo 2 – “Abbacchio arrosto”, pp. 48-57