Approfondiamo la questione riguardante il virus della trichinellosi dopo che a inizio novembre tre cinghiali selvatici a Frosinone, abbattuti a caccia nel corso della stagione venatoria 2022/23 appena iniziata, sono risultati positivi alla trichinella. I Servizi Veterinari di Ispezione degli Alimenti di Origine Animale della Asl di Frosinone hanno identificato, rintracciato ed eliminato dal circuito alimentare le carni di questi animali, che sono state destinate alla distruzione.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S), la trichinellosi colpisce a livello mondiale 10 milioni di individui, la gran parte dei quali in Asia (Cina e Sudest Asiatico). Il numero dei decessi è intorno allo 0,2% dei casi clinici e la principale fonte di infestazione è rappresentata da carne suina e derivati (prodotti di salumeria); altre fonti sono animali oggetto di attività venatoria[1]. Ne parliamo con Raffaella Baroni, ambientalista e attivista della Lega Abolizione Caccia (LAC) Brescia. Ha fondato Emergenza Cinghiali, una campagna di sensibilizzazione avviata da LAC e Rifugio Miletta sul tema dei danni strutturali della caccia al cinghiale e delle sue conseguenze sull’ecosistema.
Cos’è la trichinellosi e come si trasmette nei cinghiali?
La trichinellosi è una malattia parassitaria dovuta a nematodi appartenenti al genere Trichinella. Si tratta di larve spirali rinchiuse o meno in cisti a forma di limone (specie incapsulate e non incapsulate), localizzate soprattutto nei muscoli dell’ospitante.
In natura la parassitosi si diffonde attraverso due cicli:
– “silvestre” , fra carnivori selvatici con abitudini cannibalistiche e “spazzini” (serbatoio importante la volpe, ma anche animali onnivori come cinghiali, mustelidi e roditori)
– “domestico” che coinvolge in modo particolare suini e animali sinantropici, che vivono abitualmente in compagnia dell’uomo (soprattutto ratti), ma che accidentalmente può interessare anche altri animali quali il cavallo.
In Europa sono presenti quattro specie di Trichinella: T. spiralis; T. nativa; T. britovi ( specie incapsulate) e Trichinella pseudospiralis (non incapsulate che infettano i mammiferi e gli uccelli).
La specie di Trichinella più patogena per l’uomo è la T. spiralis ed è anche quella meglio adattata ai suini domestici e selvatici, quindi più facilmente riscontrata nell’uomo. E’ un parassita che non dà sintomatologia negli animali, ma è molto pericoloso e può causare gravi problemi di salute alla nostra specie e in casi estremi, può portare al decesso.
Quanti sono stati i casi in Italia documentati fino ad oggi nei cinghiali e nell’essere umano?
Il Ministero della Salute riporta una stima di vari milioni di persone all’anno che si infettano ingerendo carni suine crude o poco cotte, oppure insaccati provenienti da animali selvatici o suini non sottoposti a controllo veterinario. Fonte importante d’infezione sono gli insaccati mal salati, poco stagionati, sotto vuoto o conservati in olio, nei quali la carne non raggiunge il giusto grado di disidratazione, che assicura la devitalizzazione delle larve. Riguardo ai cinghiali non ho stime da riportare, ma voglio ricordare che l’animale vivo non presenta alcun sintomo clinico.
Qual è la sua sintomatologia e cos’è un fattore di rischio?
La trasmissione dell’infezione all’uomo avviene quando vengono consumati alimenti a base di carni crude o poco cotte e loro derivati (ad esempio salsicce fresche) provenienti da animali suscettibili non sottoposti ai controlli veterinari. La maggior parte delle infezioni vengono acquisite nel periodo invernale che coincide con l’attività venatoria, con la macellazione dei suini provenienti da allevamenti a carattere familiare e non sufficientemente controllati.
Le larve infettanti di circa 1 mm di lunghezza, dopo essere state ingerite si liberano dai tessuti dell’ospite nello stomaco, passano all’intestino tenue dove penetrano attivamente nell’epitelio intestinale e si sviluppano fino allo stadio di adulto. Una volta raggiunta la maturità sessuale (al 4° giorno dopo l’infezione) e dopo la successiva fecondazione, la femmina produce larve che migrano attraverso il sistema linfatico prima e sanguineo dopo, alle cellule dei muscoli striati dove si incistano, penetrano attivamente e inducono la cellula a modificarsi in cellula nutrice. Le larve all’interno delle cellule nutrici possono sopravvivere per anni sia nell’uomo che negli animali, restando in attesa di essere ingerite da un nuovo ospite.
La gravità dell’infezione è dovuta principalmente alla dose di larve infettanti ingerite e può variare da forme benigne a forme gravi che, in seguito a complicazioni cardiocircolatorie, respiratorie e/o neurologiche, possono portare al decesso del paziente. Generalmente la malattia ha un carattere epidemico in quanto più soggetti consumano le carni infette. I casi singoli sono rari.
In questa situazione che ruolo ha la caccia al cinghiale e il nutrirsi di selvaggina?
In Italia nell’ultimo decennio le carni e loro derivati di cinghiali provenienti dall’attività venatoria e non sottoposti al controllo veterinario hanno rappresentato la principale fonte di infezione (vedi casi di cronaca).
La trichinellosi però non è il solo rischio legato al consumo di selvaggina. La carne della selvaggina può veicolare gli agenti di numerose patologie in grado di colpire l’uomo. Ad esempio, le infezioni da Salmonella e Escherichia coli possono essere trasmesse (anche se poco frequentemente) dalle carni di ungulati, anatre e lagomorfi (cfr. Ramanzin et al., 2010). Nel cinghiale è stata trovata la presenza di Mycobasterium tubercolosis, di cui la specie potrebbe essere un serbatoio, anche se la proporzione di animali interessata dal batterio può essere molto variabile.
I rischi sanitari legati al consumo di selvaggina non sono riconducibili soltanto alle zoonosi (malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo ) presenti negli animali abbattuti, ma anche alla presenza di contaminanti ambientali nelle loro carni e negli organi interni. Questi rischi sono il più delle volte sottovalutati perché la presenza dei contaminanti è identificabile solo in seguito a specifiche analisi, non alla portata dei singoli cacciatori formati.
La contaminazione delle carni di ungulati con il Cesio (137Cs), riconducibile al fall out conseguente all’incidente della centrale di Chernobyl nel 1986, è stata dimostrata in molte aree del Nord Europa, in Austria e probabilmente in Italia nord orientale (cfr. Ramanzin et al., 2010). La contaminazione con i radionuclidi ha un andamento stagionale; nel capriolo è più elevata nei mesi autunnali, essendo molto probabilmente causata dall’ingestione da parte degli animali dei funghi. Nel cinghiale è invece massima in estate e tende poi a diminuire in autunno e in inverno; ciò è dovuto al consumo del tartufo Elaphomyces granulatus da parte del suide.
Anche i metalli pesanti (cadmio, arsenico, piombo) possono contaminare le carni della selvaggina e sono localizzati soprattutto nei reni e nel fegato. La presenza di questi elementi nelle carni della selvaggina è molto variabile tra le popolazioni e la loro concentrazione è più alta negli animali che vivono in ambienti inquinati dalle attività industriali. La contaminazione avviene principalmente a seguito dell’ingestione da parte degli animali di funghi o licheni che dove si accumulano i metalli pesanti.
Altra causa molto importante di contaminazione da piombo delle carni di selvaggina è la presenza di questo elemento nelle munizioni da caccia. Infatti i proiettili tradizionali delle armi a canna rigata, utilizzati per la caccia di selezione, quando colpiscono l’animale tendono a frammentarsi in particelle di piccole dimensioni (o addirittura a polverizzarsi), disperdendosi nel tessuto muscolare e in altri organi, anche distanti dal punto d’impatto. La presenza del piombo negli ungulati abbattuti durante l’esercizio venatorio è emersa in molte indagini, tra cui quella di Chiari et al., (2015), che ha esaminato esemplari di cervo e cinghiale abbattuti in Italia settentrionale.
I frammenti di piombo, a causa delle loro piccole dimensioni, non vengono rimossi durante la macellazione degli animali e il successivo confezionamento delle carni. Di conseguenza, anche nell’uomo è concreto il rischio di intossicazione da piombo (saturnismo) che può provocare gravi effetti sulla popolazione (ad esempio ritardi mentali) e pesanti ricadute sociali (Cortazar et al., 2009; Hunt et al., 2009).
Quali sarebbero le migliori misure in prevenzione?
Per prevenire l’infezione umana da trichinellosi, come prima spiegato, bisogna evitare il consumo di carne crude o poco cotte e loro derivati, di suino, equino o cinghiale che non siano state sottoposte preventivamente al controllo veterinario. Solo il freddo per almeno 8 settimane a -20°C o la cottura delle carni a 70°C uccide il parassita, ma è importante che questa temperatura sia raggiunta nel cuore del prodotto a base di carne.
Il consumo della carne di cinghiale è aumentato in conseguenza di scelte politiche che hanno favorito la caccia e la vendita delle sue carni da parte di chi lo abbatte. E’ un commercio che sta portando a un danno ambientale già dimostrato anche da diversi studi scientifici. Negli ultimi decenni la popolazione di cinghiali, nonostante la forte pressione venatoria e a dispetto dei tanti metodi di caccia messi in atto, è cresciuta in maniera esponenziale. L’attività venatoria infatti colpisce soprattutto gli adulti e innesca risposte compensative tra i cinghiali. Porta a una riproduzione precoce delle femmine e alla dispersione dei giovani, diffondendoli maggiormente nel territorio, con conseguente aumento proprio di quei danni alle coltivazioni e alla sicurezza stradale che si vorrebbero contenere.
Meglio sarebbe dunque scegliere un’alimentazione consapevole senza consumo di carne; ne trarrebbero giovamento la fauna, l’ambiente e in salute anche noi. Da anni infatti, ricerche scientifiche dimostrano che le diete a base vegetale sono anche dal punto di vista della nutrizione e dietetica salutari per tutta la vita, anche durante la gravidanza, allattamento, infanzia, età adulta e per gli atleti anche di sport estremi (vedi molte testimonianze in rete).”
[1] https://www.sardegnasalute.it/index.php?xsl=313&s=40887&v=2&c=3434