Esternalizzazione dei controlli di frontiera e politiche nazionali

Dopo la debacle sulle proposte presentate dall’Italia al Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea, il governo Meloni sembra insistere molto sulla necessità che “intervenga l’Unione Europea” a sostegno della collaborazione con i paesi terzi al fine di bloccare le partenze dei migranti e rendere più efficaci le procedure di respingimento e di espulsione. Temi sui quali il prossimo 8 dicembre si svolgerà un ennesimo Consiglio europeo “Giustizia e affari interni”, sulla dimensione esterna della migrazione e sulla situazione lungo le principali rotte migratorie. In quell’occasione si parlerà senz’altro del Patto europeo sull’asilo e l’immigrazione del 23 settembre 2020, rimasto fin qui lettera morta, come la coeva Comunicazione della Commissione 2020/1365 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” . In due anni l’Unione Europea non ha fatto alcun progresso, né sulla strada della redistribuzione dei richiedenti asilo e della riforma del Regolamento Dublino, né sulle politiche di ingresso legale ed inclusione. Il più recente Piano di azione proposto in bozza nelle scorse settimane, incentrato sulla cooperazione con i paesi terzi per rendere più efficaci le procedure di rimpatrio forzatocome osserva Statewatchappare fortemente regressivo rispetto ad un pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti, soprattutto nella parte che si occupa dei soccorsi in mare. La politica degli accordi di esternalizzazione con i paesi terzi si esplica anche sul fronte dei soccorsi in mare, con conseguenze che si dimostrano sempre più letali.

Unico terreno dove si è riusciti a trovare un brandello di accordo, la politica di esternalizzazione delle frontiere ed i rimpatri con accompagnamento forzato. ai quali occorrerebbe conferire maggiore “effettività”. Si parlerà anche del finanziamento, con risorse sempre maggiori, malgrado gli scandali che hanno travolto il suo Direttore, dell’ l’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX, ormai stabilmente collegata con la missione europea EUNAVFOR MED IRINI, che continua a tracciare con i suoi assetti aerei le imbarcazioni in fuga dalla Libia, e dalla Tunisia, in modo da rendere più facili le intercettazioni in acque internazionali ed i respingimenti collettivi “su delega” .Su tutte queste operazioni di sorveglianza dei confini marittimi europei che hano negato il diritto al socorso indagherà adesso la Corte Penale internazionale.

Risulta che dal 2017 ad oggi l’agenzia Europea Frontex abbia avvertito le autorità libiche della presenza di barconi da intercettare in acque internazionali, e per questa ragione negli ultimi anni è aumentato in misura esponenziale il numero delle persone bloccate da motovedette libiche in acque internazionali e ricondotte nei centri lager dai quali erano riuscite a fuggire. Il Rapporto dell’agenzia antifrode europea OLAF su Frontex mette a nudo responsabilità che dovrebbero essere accertate anche a livello nazionale. Su queste prassi di law enforcement, che riguardano direttamente anche gli Stati ospitanti le missioni di Frontex, in primis l’Italia e Malta, è stato presento un esposto-denuncia alla Corte Penale internazionale.

I più recenti rapporti di Frontex sembrerebbero abbandonare comunque ogni riferimento alla tesi del cd. pull factor, attribuito alle navi delle ONG, che è stato tanto utilizzato dalle forze di polizia italiane per gettare fango addosso ai soccorsi umanitari e criminalizzare l’operato delle ONG. Tesi questa del “pull factor” (fattore di attrazione, che continua ade ssere smentita dalla realtà dei fatti, ed appare sempre più evidente come aumenti il numero dei barconi intercettati dai libici in acque internazionali grazie al supporto italiano ed europeo. Vedremo quanto la criminalizzazione dei soccorsi umanitari reggerà nel processo a Salvini, in corso a Palermo per il caso Open Arms, un processo che la difesa cerca di capovolgere mettendo sul banco degli accusatori l’imputato. La scoperta (tardiva) di un sommergibile sul luogo del primo soccorso il primo agosto del 2019, sembra ideata proprio per avvalorare la tesi che l’imbarcazione sovraccarica di naufraghi fosse in buono stato di galleggiamento e quindi che gli operatori umanitari di Open Arms, accusati di essere un pull factor, avrebbero proceduto ai soccorsi “in autonomia” senza avvisare le competenti autorità nazionali e dei paesi costieri più vicini. Vedremo come le smentite delle linee difensive di Salvini, bocciate di recente anche dalla Commissione Europea e dal Parlamento europeo, che, confermando quanto già sostenevano nel 2019, hanno respinto le tesi della possibilità di negoziazioni sulla redistribuzione dei naufraghi prima dello sbarco a terra, potranno incidere sul verdetto che pronuncerà il Tribunale di Palermo. Del resto, come si è visto, senbra che anche Frontex stia facendo marcia indietro sulle accuse che rivolge da anni alle ONG che costituirebbero un pull factorSenza che da parte dell’Agenzia o dalle forze di polizia che ne fanno parte, si riuscisse mai a provare fatti penalmente rilevanti, come ammise anche il Procuratore Zuccaro a Catania, nel 2019, con una archiviazione clamorosa, al termine di due anni di indagine.

«Da quando Legeri ha rassegnato le dimissioni, Frontex ha adottato un approccio più cauto sui diritti umani», avrebbe detto infatti una fonte interna all’agenzia. «La direttrice ad interim è intervenuta al Parlamento Europeo dicendo che Frontex avrebbe adottato un approccio più attento e trasparente sui diritti umani. Il fatto che le ONG non vengano più citate come “pull factor” per i migranti può essere visto come coerente con questa direzione».

Un recente documento dell’UNHCR smentisce la tesi del governo italiano che le imbarcazioni cariche di persone sulle rotte del Mediterraneo centrale non siano tutte in situazioni di distress, sottolinenando invece, per garantire soccorsi più rapidi,, l’esigenza di un coordinamento tra gli Stati costieri che includa anche le ONG, coordinamento che al momento non esiste. Lo stesso documento chiarisce che lo sbarco dei naufraghi deve avvenire nel tempo più breve ragionevolmente possibile, in base all’emendamento 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, aggiungendo che il comandante della nave non è abilitato a formalizzare richieste di asilo e che lo Stato di bandiera deve partecipare al coordinamento dei soccorsi ed all’assistenza tecnica, ma non è tenuto alla indicazione di un porto di sbarco sicuro. Obbligo che ricade invece sullo Stato costiero responsabile della zona SAR, sempre che possa garantire un place of safety (POS) nel suo territorio, o in assenza di queste circostanze di qualunque altro Stato costiero a conoscenza dell’evento di soccorso, o “Stato di primo contatto” che possa garantire un porto sicuro da raggiungere “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”.

L’Unhcr conferma a tale riguardo la nozione di place of safety generalmente diffusa nel diritto internazionale consuetudinario e già accolta nel Regolamento Frontex n. 656 del 2014, chiarendo che la nave soccorritrice non può essere utilizzata come POS a tempo indeterminato in attesa che si risolva la controversia tra gli Stati costieri sulla sua destinazione finale. Secondo questo documento delle Nazioni Unite, dunque le ONG non sembrano certo quel fattore di attrazione delle partenze (pull factor), che torna utile al governo italiano per nascondere le proprie responsabilità nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro. Non ricorrono dunque gli elementi per affermare che una nave umanitaria che ha effettuato un soccorso in acque internazionali e che attraversi il mare territoriale possa costituire un passaggio “non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay. Le conseguenze del mancato coordinamento tra gli Stati costieri nella indicazione di un porto di sbarco sicuro non possono ricadere sul comandante della nave soccorritrice, o, peggio, sui naufraghi, costretti ad attese estenuanti, anche quando sono già stremati dalla traversata.

Mentre si nasconde lo stillicidio di vittime in mare, conseguenza della mancanza di coordinamento tra gli Stati costieri e del ritiro dalle acque internazionali degli assetti navali militari degli stessi Stati, o del loro impiego ad esclusivi fini di sorveglianza, infuria una truce tempesta mediatica che si abbatte su qualsiasi episodio di soccorso umanitario. Anche se i processi penali a carico dei rappresentanti delle tanto odiate ONG si chiudono con archiviazioni, il richiamo a presunti obblighi di soccorso degli stati di bandiera, (flag state) che caratterizzano da tempo la gestione del ministero dell’interno, riducono al minimo l’impegno di soccorso dell’Italia e di Malta in acque internazionali e sembrano legittimare divieti di ingresso in porto. Divieti che corrispondono a palesi violazioni del diritto internazionale del mare e del diritto dei rifugiati. Appare evidente come tra paesi di dimensioni tanto diverse non si possa mai parlare di un vero coordinamento nelle attività SAR, perchè Malta non ha mai accettato gli emendamenti alle Convenzioni di diritto internazionale del mare apportate nel 2004 proprio per rafforzare il nesso tra l’obbligo di soccorso in acque internazionali e lo sbarco in un porto sicuro “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”( art. 3.1.9 dell’Allegato alla Convenzione SAR del 1979). Rimane anche controversa la effettiva ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale, perché nella zona a sud ovest di Lampedusa ed nella zona a est di Malta, le zone SAR risultano sovrapposte (overlapped) ed il coordinamento dei soccorsi spesso viene a mancare o si verifica in ritardo. Sono questioni che hanno ritardato i soccorsi in acque internazionali causando la perdita di molte vite umane in mare.

 

Le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e del contrasto delle migrazioni irregolari hanno sostanzialmente svuotato la portata del diritto di asilo previsto dalla Convenzione di Ginevra e dall’art. 10 della Costituzione italiana. Si è negato il diritto di accesso ad un territorio sicuro e si sono favorite le prassi di respingimento collettivo verso paesi non sicuri, collaborando attivamente con polizie di frontiera che non rispettavano i diritti fondamentali della persona, come è emerso nel caso attualmente all’esame della Corte europea dei diritti dell’Uomo (S.S. e altri contro Italia) relativo all’intervento violento di una motovedetta libica durante un operazione di salvayaggio condota dalla Sea Watch il 6 novembre del 2017. Dal 2017 al 2020 è accertato anche in decisioni dei Tribunali che le autorità italiane hanno coordinato di fatto le attività della sedicente Guardia costiera libica, alla quale hanno fornito numerose motovedette, corsi di formazione, supporto tecnico. Situazione che risulta alquanto cambiata oggi, con la presenza predominante dei militari turchi in Tripolitania e con un rafforzato ruolo di spinta delle partenze e di collusione con i trafficanti da parte delle milizie che controllano la Cirenaica, ed in particolare la zona di Bengasi. La perdurante situazione di divisione del paese impedisce di considerare ancora validi, e legittimi sotto il profilo del diritto internazionale, gli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli, che non appare rappresentativo di buona parte delle milizie che controllano il territorio libico a sud nel Fezzan, ed a oriente in Cirenaica, dove è pure presente il gruppo russo Wagner.

Nel 2021 L’Rapporto dell’agenzia antifrode europea OLAF ha pubblicato un rapporto che “riassume gli standard legali applicabili e le posizioni dell’Agenzia in merito alle politiche e alle pratiche che servono effettivamente a ‘esternalizzare’ gli obblighi di protezione internazionale”. La nota è accompagnata da un allegato che “spiega che le misure volte, o effettivamente utili, ad evitare responsabilità o a spostare, piuttosto che condividere, gli oneri sono contrarie alla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati (‘Convenzione sui rifugiati del 1951’) e ai principi di cooperazione e solidarietà internazionale generalmente accettati”Nel Rapporto si evidenzia come gli accordi di di esternalizzazione siano distanti dalle politiche e dalle pratiche adottate in conformità del diritto internazionale, volte a condividere le responsabilità in materia di protezione internazionale nello spirito della cooperazione e della solidarietà internazionali.

Di certo non si può strumentalizzare la presenza dell’UNHCR in Libia, paese che non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, per giustificare hotspot in quel paese, ancora diviso tra milizie in conflitto, o prassi di respingimento collettivo su delega ai guardiacoste libici. Anche la ministra Lamorgese aveva parlato della «preziosa opera dell’Unhcr e dell’Oim, per il rispetto dei diritti umani nei centri allestiti nel Paese nordafricano». Ma dalla Libia fonti delle Nazioni Unite smentivano qualunque tentativo di individuare in Libia porti sicuri di sbarco: «Non abbiano nessuna possibilità di cambiare la situazione rispetto ai diritti umani». Una situazione che oggi non appare certo nigliorata e che si presta soltanto a facili strumentalizzazioni elettorali.

In questi giorni, nei centri di detenzione libici è stato impedito persino l’accesso ad una missione ufficiale delle Nazioni Unite, e la Libia continua a non ratificare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e, se aderisce alla Convenzione OUA dei paesi africani che contiene un richiamo al diritto d’asilo, non ha una legislazione interna che garantisca lo status di richiedenti asilo e rifugiati, che sono spesso oggetto di scambio tra le milizie e le bande criminali, anche quando hanno avuto riconosciuto il diritto alla protezione.

 

versione ridotta del contributo pubblicato in contemporanea su A-Dif.org