Si riaccende anche lo scontro con l’Europa
Malgrado la ferma risposta della Commissione europea e dei principali Stati europei alla pretesa del governo italiano di scaricare sugli stati di bandiera delle navi delle ONG la responsabilità di indicare un porto di sbarco sicuro nel tempo più breve ragionevolmente possibile (art. 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979), le autorità italiane continuano a negare la tempestiva assegnazione di un POS (place of safety) alle navi della società civile che ancora una volta hanno salvato vite in acque internazionali, altrimenti esposte al rischio di naufragio o di intercettazione violenta da parte delle motovedette libiche. Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: che «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
E’ stato ormai accertato in diversi procedimenti penali, conclusi con l’archiviazione delle accuse contro le ONG, come gli Stati costieri della sponda sud del Mediterraneo e Malta rifiutino di assegnare un porto di sbarco sicuro, anche ammesso che i loro porti di attracco possano essere considerati sicuri per i naufraghi soccorsi in acque internazionali, quando gli interventi di ricerca e salvataggio (SAR) si sono svolti al di fuori delle loro acque territoriali, che hanno estensione molto più ridotta (12 miglia dalla costa) delle enormi zone SAR che si sono attribuiti nel tempo. Le autorità marittime libiche, al pari di quelle tunisine o maltesi rifiutano di fare entrare nelle loro acque territoriali navi civili che abbiano svolto attività SAR senza ottenere, malgrado reiterate richieste, alcun coordinamento statale. Esattamente come le autorità italiane rifiutano generalmente di assumere il coordinamento dei soccorsi al di fuori della zona SAR che si è riconosciuta il nostro Paese. Esiste tuttavia, in base alle Convenzioni internazionali, un preciso dovere di intervento e di coordinamento dei soccorsi a carico dello Stato contattato o informato dell’evento di soccorso (Stato di primo contatto), quando gli Stati che sarebbero competenti in base alla ripartizione delle zone SAR in acque internazionali, registrata presso l’IMO di Londra, non assumono il coordinamento degli interventi di salvataggio o comunicano di non avere mezzi da inviare a distanze tanto elevate da rendere del tutto inefficaci le risposte alle chiamate di soccorso.
Per giustificare un rifiuto di atti di ufficio da parte delle autorità italiane ormai sistematico, ritornano le argomentazioni che sono servite in passato a criminalizzare le attività SAR delle navi umanitarie o per difendere, di riflesso, la posizione dell’ex ministro dell’interno Salvini, sotto processo davanti al Tribunale di Palermo per il caso Open Arms, verificatosi nell’agosto del 2019, quando i naufraghi a bordo della nave della ONG spagnola poterono sbarcare a Lampedusa solo grazie ad un provvedimento di sequestro adottato dalla Procura di Agrigento. il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva allora la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Una valutazione che in altri procedimenti è stata condivisa anche da diversi Tribunali e dalla Corte di Cassazione.
Malgrado questa consolidata giurisprudenza, ritorna ancora oggi la qualificazione degli eventi SAR come episodi di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress delle imbarcazioni su cui si trovavano le persone in pericolo di annegamento. Le prime pagine dei giornali sono occupate dall’accanimento accusatorio utilizzato dalla difesa del ministro Salvini nel processo di Palermo che si tenta di trasformare in un processo contro la ONG Open Arms per giustificare il rifiuto di atti di ufficio del ministro che nel 2019, prima e dopo il Decreto sicurezza bis n.53/2019, negava per settimane l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro alle navi umanitarie che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali e ostacolava con tutti i mezzi lo sbarco in porto alle persone soccorse dalle navi militari Diciotti e Gregoretti.
Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa ad un caso che aveva riguardato la Sea Watch, si richiama proprio:”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via amministrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
Malgrado questi arresti giurisprudenziali, confermati anche dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete,si nega l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro o si concede l’ingresso a condizione di selezioni arbitrarie tra i naufraghi e ritornano le argomentazioni usate dal titolare del Viminale nel 2019, secondo cui ““Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”. Queste stesse argomentazioni vengono così utilizzate come pretesto per rifiutare la tempestiva indicazione di un porto di sbarco sicuro a tutte le ONG che operano soccorsi in acque internazionali, siano nella zona SAR maltese che in quella “libica”.
Si è arrivati al punto di ripescare rapporti rimsati segreti per anni, frutto dell’attività di sorveglianza in acque internazionali di unità militari italiane, addirittura un sommergibile,per rappresentare come un illecito, che sarebbe stato commesso dalla ONG, operazioni di ricerca e salvataggio svolte nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali e della normativa europea, nella interpretazione consolidata che ne ha fornito la Cassazione e la prevalente giurisprudenza italiana. La bagarre creata dalla difesa del ministro Salvini, rilanciata dai media che ne sostengono le ragioni anche con riferimento ai soccorsi operati dalle Ong in questi giorni, ha impedito di considerare nelle udienze dibattimentale i capi di imputazione che avrebbero dovuto (e devono) costituire il nucleo centrale dell’attività di accertamento del Tribunale di Palermo.
Si dovrebbe comunque ricordare che, in base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur, “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione (o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.
versione per Pressenza del contributo pubblicato su .A-dif