C’è poco da dire. Amjad è scappato dall’Iran all’età di 22 anni. Van, Istanbul, un’auto cigolante fino a Izmir, poi a piedi fino alle acque del mare, nel distretto di Çeşme, dove ad attenderlo c’erano settanta persone stipate sopra una barchetta da dieci posti. I trafficanti curdi hanno indicato una nave al largo, dicendo al gruppo che era quella, proprio quella, la bella nave da utilizzare per raggiungere Chios. Per otto giorni Amjad e ciurma persero la rotta: onde, vomito, motore rotto. Un siriano aggiustò l’apparecchio con un paio di calci e approdarono a Siracusa, totalmente distanti dalla destinazione pensata e per la quale avevano pagato circa 1.500 euro a testa. “Con quei soldi e gli altri 4.000 spesi per raggiungere Izmir avrei potuto richiedere un visto altrove. Sicuramente un paese più sfigato dell’Italia, ma di certo non avrei fatto quel viaggio infernale. Non rifarò mai più un’esperienza simile; all’epoca non capivo, ero troppo giovane. Pubblicavo un giornalino satirico in Iran. Mi hanno cacciato dall’università e, pur non essendo in pericolo di vita non sarei mai stato libero di fare ciò che volevo. Dunque sono partito”.
Sembra che non parlino d’altro le frontiere d’Europa: fughe, rincorse, truffe. Incontro Alice Buosi, componente dell’Arci Misskappa (che ospita l’associazione Ospiti in Arrivo in un bar della periferia di Udine. “Ospiti in Arrivo ONLUS è un’associazione che si occupa di richiedenti protezione internazionale a Udine. Formata da cittadini, lavoratori, disoccupati e studenti, uomini e donne di ogni ceto sociale e di diverse età, si sostiene esclusivamente grazie alle risorse messe a disposizione da altri cittadini e all’opera gratuita dei suoi volontari. Nata con finalità di solidarietà sociale, promuove la tutela dei diritti umani, il pluralismo culturale, il dialogo interreligioso e lo scambio di conoscenze. Ospiti in Arrivo è indipendente: denuncia soprusi e inadempienze. Siamo presenti ogni sera nei luoghi dove i migranti o futuri richiedenti asilo si trovano al momento del loro arrivo in città e prima del loro eventuale ingresso nel sistema d’accoglienza. Distribuiamo coperte e beni di prima necessità e diamo informazioni sulla gestione delle pratiche per la formalizzazione della richiesta d’asilo. Offriamo primo supporto e indirizzamento medico-sanitario, anche grazie ai traduttori, che sono ragazzi cui è stata riconosciuta la protezione internazionale e che tornano spontaneamente ad aiutarci.
Dal 2015 Ospiti in Arrivo ha avviato una serie di progetti di monitoraggio lungo la rotta balcanica e in Grecia, per portare aiuto umanitario ma soprattutto per cercare di capire il contesto e le modalità di queste migrazioni, raccogliendo le storie e le testimonianze delle persone” racconta tutto d’un fiato Alice, con gli occhi che sorridono. “Spostiamoci, due amici ci attendono qua vicino” aggiunge poi. Gli amici sono Shami e Adnan (detto Dani), pakistani accolti dall’associazione nel 2016. Entrambi hanno 25 anni ed entrambi provengono da Panjar. E sempre entrambi hanno attraversato lran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria, camminando o viaggiando a bordo di vetture guidate dai passeur, lungo la cosiddetta rotta balcanica.
La via in questione, teoricamente, si è chiusa a fine marzo 2016, dopo l’accordo tra UE e Turchia che ha visto stanziare tre miliardi di euro al governo Erdogan per fermare, arginare e gestire i migranti o profughi in transito. Con l’inasprimento dei controlli alle frontiere europee, le migliaia di persone rimaste bloccate in Serbia, Montenegro, Albania o Macedonia, da svariati mesi stanno provando una rotta alternativa che passa per la Bosnia, quasi mai percorsa fino all’inverno scorso per via della posizione geografica: passare per il territorio bosniaco, infatti, significa allungare il percorso per raggiungere la Croazia (primo paese dell’Unione Europea che si incontra arrivando da sud). Dopo la costruzione del “muro di Orbán” (una barriera di filo spinato e telecamere alta 3,5 metri e lunga 175 chilometri presidiata da militari e polizia), cosi come con i respingimenti e le deportazioni nei campi governativi a centinaia di chilometri dal confine croato-ungherese, si è riscontrato un progressivo allontanamento dei migranti dalla Serbia e, dalla primavera del 2018, centinaia di loro, comprese famiglie e minori non accompagnati, hanno cominciato a spostarsi da est verso ovest, congelandosi per settimane o mesi nei campi ufficiali e informali di Bihac e Velika Kladusa.
Chi tenta il passaggio illegale, il cosiddetto Game, spesso è costretto a tornare indietro privato di soldi e dignità, con il cellulare rotto e qualche bastonata ricevuta dai poliziotti croati di guardia. “Quando abbiamo superato il confine ungherese eravamo davvero tanti, cento circa. Non conoscevo nessuno, avevo di fronte solo reti, chiodi, pali di ferro. Chi le tagliava quelle reti, chi le saltava. È stato sicuramente il confine più difficile da superare – racconta Shami – la polizia picchiava forte. A Subotica rischiavi di beccarti sei mesi o un anno di galera solo se ti vedevano bazzicare sul confine”.
“In Pakistan studiavo economia, – irrompe Adnan – sono scappato nel 2015, non per tensioni politiche, ma per faide famigliari. Ho impiegato sei mesi per arrivare in Europa, pagando 8.600 dollari. Cosa penso dell’immigrazione? La gente si sposta da sempre, non do ascolto a ciò che dicono gli altri. Mi circondo di persone che mi vogliono bene e tiro avanti. Qui a Udine non ho problemi. Cerco lavoro e nel frattempo vivo a casa di amici. Ho ottenuto lo status di rifugiato e per legge, a due mesi dall’ottenimento di questo documento, devo abbandonare il Centro d’Accoglienza Straordinaria (CAS). Potrei far richiesta allo SPRAR, ma non sai mai dove ti ficcano! Magari si libera un posto a Potenza e non vale la pena troncare amicizie e contatti solo per un letto. Il peggior momento – prosegue, dopo un minuto di silenzio – è stato in mare. Eravamo in quattordici a bordo e stavamo affogando. Ci hanno ripescato i militari turchi deportandoci ad Ankara. Dopo due ore trascorse in galera, siamo riscappati verso Bodrum per riprendere di nuovo un barcone. I passeur sono in ogni paese, come un puzzle, come un’enorme rete mafiosa con cui è difficile non interagire se vuoi raggiungere l’Europa”.
Immagino un’eterna, incerta odissea durante la quale ti abitui alle umiliazioni, ai pidocchi, ai fornelli improvvisati con assi marce, ai canali d’acqua rafferma, agli sguardi vecchi dei bambini, alle mani alzate in cielo in segno di pietà. Ogni volta sradicati, cacciati, braccati, tentando di fare gruppo, squadra, comunità, pur di non venir sommersi.
Nel campo da cricket sorto nel quartiere Sant’Osvaldo si mescolano i più svariati idiomi: un inglese approssimativo farcito di Urdu, Pashtu, Hindi, Dari. Khaled è divorato da uno sciame di zanzare. Si divincola con foga, la barba folta a incorniciare il volto magro. “Vengo da Kunduz. Sono in Italia da due anni ma, appena messo piede a Udine, mi sono ammalato. Prima la schiena, poi gli occhi, a seguire lo stomaco e ora il cervello. In Afghanistan stavo per diplomarmi, ma è arrivata la guerra… In realtà la guerra c’è sempre stata, sono nato con la guerra. Prima i russi, poi gli USA, a seguire i talebani e ora l’ISIS. Come gli organi malati del mio corpo. Uno dietro l’altro. Bombe governative, bombe americane, bombe amiche, bombe nemiche… Mio nonno ha costruito un rifugio sotterraneo, ma io ho preferito andarmene invece di fare la fine del topo”.
I gabbiani sospingono i passi verso Trieste. Lorena Fornasir, 65 anni, psicoterapeuta, e Gian Andrea Franchi, 82, ex insegnante di Filosofia e Storia, abitano a metà di Corso d’Annunzio, in un palazzo con le serrande azzurre. Prima di trasferirsi a Trieste, la coppia* ha lavorato assiduamente a Pordenone, in strada, con coloro che venivano respinti dal sistema d’accoglienza. “Io e mio marito prima del 2015 non avevamo mai fatto volontariato. Abbiamo visto arrivare decine (che presto si sono trasformati in centinaia) di migranti. Nessuno si occupava di loro e noi non potevamo voltargli la faccia. Alla notizia di un ragazzo afgano di venti anni schiacciato tra due container al molo di Trieste, abbiamo deciso di andare oltre i confini e capire quel che stava succedendo. Da tempo ci rechiamo in Bosnia, esponendoci parecchio. Abbiamo aiutato qualche ragazzo o famigliola a superare il confine, ma con le nuove leggi rischi salato; hanno criminalizzato la solidarietà. Ma non possiamo farne a meno, dunque continuiamo a raccogliere scarpe, coperte, cibo, e partiamo. Raccogliamo anche storie e testimonianze: quello che succede è veramente agghiacciante”.
“Anche Amnesty International accusa l’Unione Europea di essere complice dei respingimenti sistematici e delle espulsioni collettive nei confronti di migranti e profughi. Per capire la priorità dei governi europei basta seguire il flusso di denaro. Il contributo finanziario all’assistenza umanitaria è marginale rispetto ai fondi forniti per la sicurezza delle frontiere, che includono equipaggiamenti da guerra per la polizia stanziata sul confine croato-bosniaco”. Passeggiando sul molo del porto turistico, Gian Andrea mi informa che al Bira Refugees Centre di Bihac, in Bosnia, i numeri ufficiali parlano di 2.250 posti letto e 3.914 persone registrate. Per l’81 % si tratta di ragazzi soli provenienti per lo più da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran. Dal gennaio 2018, oltre 23.000 migranti e richiedenti asilo sono arrivati in Bosnia. L’anno prima erano meno di mille. Questi dati forse rendono chiara la misura dell’esodo in atto.
Seduto di traverso sopra una panchina, ciondola un ragazzo con le palpebre gonfie. Il viaggio di Kaddour parte da Zeralda, a circa trenta chilometri da Algeri. “Zeralda è il punto di ritrovo per i trafficanti, ormai padroni indiscussi dei grandi deserti africani. Seconda tappa: Tamanrasset, nell’estremo sud algerino. È lì che mi hanno dato finalmente i documenti falsi e un biglietto per Agadez, da dove avrei dovuto prendere un volo per Istanbul. Dopo essere sceso e aver attraversato metà Balcani, a Svilaj mi hanno ripescato, sbattendomi a Tuzla. Nessuno rimane per più di ventiquattro ore a Tuzla. Ufficialmente, mediante una facile registrazione, si ottiene il diritto legale di soggiornare in Bosnia per quattordici giorni. Spesso questi documenti temporanei vengono distrutti per evitare la riammissione nel Paese d’origine e si chiede una protezione internazionale, in modo da avere almeno libertà di movimento dentro il territorio bosniaco. Io non ho fatto nulla di tutto questo: ho proseguito illegalmente, viaggiando a bordo di un autobus fino a Zagabria. Non ci sono stati controlli alla frontiera croata e con altri venti euro ho raggiunto Trieste”. Trieste, culla di geografie interiori.
*Poco dopo il nostro incontro, i coniugi daranno vita all’associazione Linea d’Ombra ODV, impegnata a favore dei migranti in transito. Nel febbraio 2021 Lorena e Gian Andrea verranno sospettati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Secondo l’associazione, l’indagine intende colpire e criminalizzare la solidarietà.