In Iran si protesta da 76 giorni consecutivi e la violenta repressione del regime degli ayatollah ha già portato a circa 660 morti. I ragazzi e le ragazze che si trovano in strada proprio ora non hanno intenzione di fare un passo indietro. Dopo più di due mesi di manifestazioni, capitanate dalle donne, si è a un punto di non ritorno: si andrà avanti sino a che non si otterranno libertà e parità di diritti, come si legge sugli striscioni e come inneggiano gli slogan.
In Iran da più di due mesi è in atto una rivoluzione democratica: è l’inizio della fine del regime degli ayatollah? Ne ho parlato con Samirà Ardalani, attivista dell’associazione Giovani Iraniani d’Italia, che in Italia sta dando voce a ciò che sta succedendo. L’esigenza primaria della popolazione iraniana ora è che la comunità internazionale riconosca le istanze del popolo e prenda finalmente una netta posizione contro il regime di Teheran.
Samirà, raccontaci: cosa sta accadendo in Iran?
L’Iran è una polveriera da anni, bastava una scintilla per esplodere e così è stato. Come sappiamo, le manifestazioni sono iniziate in seguito all’uccisione di Mahsa Amini, una ragazza curda di 22 anni, fermata dalla polizia morale – che ha come unico fine quello di controllare che le donne siano vestite in linea con i precetti dell’Islam – per non aver indossato correttamente il velo, da cui si intravedevano alcune ciocche di capelli, mentre si trovava a Teheran.
Quando le donne con abbigliamento ritenuto improprio vengono fermate, vengono poi portate nei centri di rieducazione, dove si insegna loro come vestirsi. Spesso però sono sottoposte a violenza e così è successo anche a Mahsa Amini, che è stata brutalmente picchiata: dall’autopsia infatti è stata rilevata una frattura a livello occipitale. Amini è morta il 16 settembre mentre si trovava in carcere, uccisa dalle percosse della polizia morale. Ecco la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Così le persone sono scese in piazza…
Fin da subito gli slogan sono stati radicali, invocanti il rovesciamento del regime. Si grida “Abbasso Khāmeneī”, “abbasso il dittatore”, “abbasso l’oppressore”. A settantasei giorni dall’inizio, la manifestazione viene ancora guidata dalle donne, ma partecipano anche gli uomini al loro fianco, accettando la leadership femminile: insieme chiedono la fine della dittatura, chiedono la libertà, chiedono un paese democratico e una netta separazione tra religione e politica. Uno degli slogan infatti è proprio “Democrazia e parità”.
Un tratto importante e distintivo di queste proteste è che si sono subito radicalizzate e dimostrate trasversali a livello etnico, religioso, ma anche geografico e sociale, dalla capitale alle metropoli, nei villaggi sino alle aree rurali. A Teheran hanno partecipato sia gli studenti delle zone più abbienti che i ragazzi nei quartieri più poveri. Ad oggi lo spirito del movimento di rivoluzione si è completamente propagato a tutto l’Iran nella sua totalità.
A giocare un ruolo essenziale nel coinvolgimento dell’intera nazione è la presenza attiva dei Nuclei di Resistenza affiliati al CNRI, il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, istituiti nel 2014 che hanno fatto e fanno tuttora da apripista ai concittadini che, come stiamo vedendo, hanno dato una risposta positiva.
Cosa spinge in piazza tutti questi ragazzi?
Pensano che ne valga la pena. Uno degli elementi che sta distinguendo questa rivolta dalle precedenti è la presenza costante, sia di giorno che di notte, di giovani nelle strade, anche della generazione Z, che escono ben consapevoli che potrebbero non rientrare a casa. Queste giornate stanno segnando l’inizio di una rivoluzione democratica in Iran. I ragazzi lasciano testamenti su Instagram, di solito rivolti ai propri genitori, scusandosi per il dispiacere che potrebbero causare alla propria famiglia.
Non hanno paura?
Escono di casa sapendo bene cosa potrebbe accadere e allo stesso tempo sanno che non hanno nulla da perdere. E sono decisi a portare avanti questa rivolta fino a quando non sarà rovesciato il regime. Sono giovani ispirati dalla voglia di libertà.
Che contatti diretti avete sul posto?
Ci arrivano notizie attraverso la nostra rete con i giovani dei nuclei di resistenza in Iran. In alcune aree del Paese la connessione Internet è lenta e abbiamo rilevato che le regioni dove c’è maggior disordine sono quelle dove la rete è peggiore. Nonostante le difficoltà vogliono che se ne parli, che nel mondo si sappia quello che sta accadendo. Per questo fanno di tutto per inviare il materiale audio e video, anche a costo della vita, come purtroppo già successo in almeno un paio di occasioni in cui le persone sorprese a filmare pestaggi da parte della polizia sono state immediatamente uccise
Sapere però non basta. È anche necessario che si faccia qualcosa di concreto.
Le richieste sia della resistenza organizzata che della comunità iraniana sono due: innanzitutto chiediamo all’Italia una presa di posizione da parte del Governo, l’immediata liberazione dei manifestanti arrestati e una decisa condanna del regime. A livello ufficiale, in Italia questo è mancato. Da parte della premier Meloni sono arrivati due tweet all’inizio delle proteste e uno rivolto alle donne pochi giorni fa: i post sui social hanno certamente un peso, ma non sono abbastanza.
Chiediamo poi l’espulsione immediata degli ambasciatori in tutto il mondo – ora le ambasciate non sono altro che centri di spionaggio – e che i pasdaran, il corpo delle guardie della rivoluzione islamica che hanno ucciso oltre 58 minori nei giorni scorsi e che sparano a vista sulla folla, vengano inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche. Chiediamo inoltre il riconoscimento di questa rivoluzione e del diritto dei manifestanti a difendersi. Il popolo iraniano non chiede armi, né supporto economico: chiede che la comunità internazionale smetta di sostenere il regime.
Cosa può fare invece ciascun cittadino?
Oltre a condividere le notizie, per dare sempre maggiore visibilità, ciò che ognuno può fare, specialmente se è membro di un’associazione, di un circolo, di un comitato o anche di un partito, è scrivere in qualità di semplici cittadini al Ministero degli Esteri, al presidente della Repubblica, ai parlamentari e ai senatori, chiedendo come elettori di fare pressione affinché l’Italia prenda finalmente posizione. Questa è un’azione semplice che può fare qualsiasi cittadino. Se a mobilitarsi saranno in tanti, la pressione dal basso sarà maggiore.