Quando parliamo di solidarietà in mare e delle attività della “civil fleet”, di soccorso e testimonianza/documentazione nel Mediterraneo centrale, parliamo di attività che si svolgono in uno spazio giuridicamente molto denso, dove le norme di diritto internazionale del mare e dei diritti umani si sovrappongono (e scontrano), con la disciplina degli stati costieri sul controllo delle frontiere e dove la libertà di movimento si scontra con le pratiche con cui i governi europei si propongono di contrastare la mobilità e le azioni solidali con chi la esercita.

Circa un mese fa, alla presenza di quattro navi di diverse ONG battenti bandiera tedesca e norvegese che dovevano sbarcare le persone soccorse in Sicilia, il governo Meloni ha risposto con la retorica dei porti chiusi e ha cercato allo stesso tempo di scansare la responsabilità dei ministeri coinvolti consentendo lo sbarco delle persone ritenute “vulnerabili”, negando l’evidente circostanza per cui tutti i migranti soccorsi sono prima di tutto dei “naufraghi”. Il governo pretendeva inoltre la presa in carico delle richieste di asilo delle persone soccorse da parte degli stati di bandiera delle navi soccorritrici, sulla base di una discutibile interpretazione del principio di diritto internazionale per cui in acque internazionali lo stato di bandiera esercita la giurisdizione sulle proprie navi.

Una sintesi di alcune norme e principi che si applicano nelle situazioni di soccorso in mare può essere utile per leggere quanto accaduto e quanto potenzialmente accadrà nei prossimi mesi.

Partiamo dall’art. 98 dell’UNCLOS, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Questo stabilisce un obbligo in capo agli stati per il quale questi devono pretendere dai comandanti di navi battenti la propria bandiera che prestino assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare. L’unico limite a questo obbligo sta nella possibilità di prestare assistenza senza mettere a repentaglio la sicurezza della nave soccorritrice e del suo equipaggio. In modo simile la Convenzione sulla salvaguardia della vita in mare (SOLAS) prevede che “il comandante di una nave in mare che sia in grado di prestare assistenza quando riceve da qualsiasi fonte l’informazione che delle persone sono in pericolo in mare, è tenuto a procedere con la massima celerità all’assistenza di tali persone, se possibile informandole o informando il servizio di ricerca e soccorso che la nave sta procedendo in tal senso. L’obbligo di prestare assistenza si applica indipendentemente dalla nazionalità o dallo status di tali persone o dalle circostanze in cui si trovano”. Ciò significa che né lo status giuridico né il motivo per cui una persona si trova in difficoltà in mare possono costituire un motivo per evitare o ritardare l’assistenza. Anche la legge italiana è molto chiara per quanto riguarda il dovere del comandante di fornire assistenza in mare e punisce il comandante di una nave che omette di prestare assistenza o non tenta il salvataggio. Gli stati poi, sulla base della Convenzione SAR, la Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare firmata ad Amburgo del 1979, sono tenuti a predisporre sistemi amministrativi e logistici in grado di coordinare e facilitare le operazioni di soccorso. Per questo sono istituiti i centri di coordinamento del soccorso marittimo e i cd “Piani SAR”, per questo le acque internazionali sono state suddivise in “regioni di ricerca e soccorso” facenti capo ai diversi stati costieri. Quindi all’obbligo dei comandanti di intervenire in mare corrisponde l’obbligo degli stati costieri di facilitare e coordinare l’intervento delle navi, statali o private, che adempiono a tale obbligo.

Il diritto internazionale del mare prevede norme chiare in merito allo sbarco delle persone soccorse: le operazioni di soccorso possono considerarsi concluse solo con lo sbarco in un luogo “sicuro” (il famoso POS o place of safety).  Le convenzioni non forniscono una definizione rigida di questo concetto, che deve essere declinato secondo le circostanze del caso concreto. Quando si tratta di indicare un luogo sicuro per lo sbarco di persone in fuga dal proprio Paese o da situazioni di pericolo (come quella libica), o quando si incarica un Paese terzo di intervenire in mare, gli stati devono prendere in considerazione le conseguenze di queste azioni e le possibili violazioni dei diritti umani che le persone soccorse potrebbero subire a causa di tali azioni (o omissioni). Gli stati membri dell’UE sono infatti vincolati al principio di non respingimento, che è un principio generale del diritto internazionale, previsto anche in diverse convenzioni e trattati (v. art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 e artt. 2, 3 e 4 prot. 4 della CEDU) che obbligano gli Stati a evitare l’espulsione o il respingimento verso paesi in cui la vita o la libertà delle persone respinte sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Inoltre, gli Stati non possono legalmente negare l’ingresso di una persona nel loro territorio quando questo comportamento può comportare il rischio di subire torture o trattamenti degradanti e inumani o il successivo rimpatrio in un Paese in cui si potesse configurare questo rischio.

Nonostante i ripetuti tentativi dei governi italiani di sostenere il contrario, la Cassazione nel famoso caso di Carola Rackete ha messo in chiaro che la nave soccorritrice non può mai essere confusa con il “POS” di cui parla il diritto internazionale. Lo stesso principio è chiarito anche dalle Linee guida IMO (International Maritime Organization, di cui l’Italia è parte) sul trattamento delle persone soccorse in mare. Per questo motivo la presenza dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice non fa venire meno il dovere in capo agli stati di sollevare i comandanti della loro responsabilità nel più breve tempo possibile e garantire lo sbarco in condizioni di sicurezza. Lo stesso diritto europeo fa esplicito riferimento alla necessità di dare contemporanea applicazione alle norme di diritto del mare e dei diritti umani quando nel regolamento sul controllo della frontiera marittima (656/2014/UE) include la tutela dei diritti fondamentali fra i requisiti del “POS” e laddove nel codice delle frontiere Schengen subordina le attività di controllo della frontiera ai diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo (v. Art. 3).

È per queste ragioni che riteniamo, insieme a una giurisprudenza ormai pacifica, che lo sbarco in Libia e la consegna dei naufraghi alle autorità libiche costituiscano atti contrari alle norme di diritto internazionale e interno. Lo stesso ragionamento vale per ogni forma di facilitazione del respingimento in Libia o in altri paesi del nord Africa.

Per tornare allo scorso ottobre e alla “guerra” al soccorso in mare, osserviamo che i ministri del governo Meloni hanno dato applicazione a norme interne e in particolare all’art. 1 co. 2 del “decreto Lamorgese”, che consente l’emanazione di decreti interministeriali volti a impedire il transito o la sosta delle navi il cui passaggio venga considerato “offensivo”, con un richiamo alla convenzione UNCLOS che consente alcune eccezioni al principio di libertà della navigazione nelle acque territoriali. Questa norma costituisce un residuo di quanto previsto dal decreto sicurezza-bis voluto da Salvini nel 2019, che invece di essere completamente abrogato dal governo Conte II, è stato semplicemente “riformato”. È stata infatti introdotta un’eccezione all’applicazione del divieto di transito o sosta nelle acque nazionali quando si tratti di operazioni di soccorso, ma solo quando queste siano state comunicate alle “autorità competenti” (per es. quelle libiche se il soccorso avviene nella zona SAR di loro competenza) e quando la nave abbia rispettato le istruzioni di tali autorità.

Il ministro Piantedosi ha per questo sostenuto pubblicamente e in modo ripetuto che le navi ONG avevano effettuato soccorsi senza allertare le competenti autorità e “in completa autonomia”. La prima affermazione è falsa, dato che gli tutti gli stati costieri vengono costantemente allertati della posizione e delle intenzioni di tutte le navi della “civil fleet”; la seconda è vera, ma deve essere letta alla luce del fatto che sono gli stati che affacciano sulla rotta del Mediterraneo centrale a rifiutarsi sistematicamente di coordinare le operazioni di soccorso, contribuendo così al respingimento e al naufragio di molti migranti, ormai da anni.

Ci sono almeno due profili di novità nel modo in cui il nuovo governo ha gestito comunicativamente e da un punto di vista giuridico la sua battaglia contro le ONG: il tentativo di costringere i naufraghi a presentare delle domande di asilo a bordo della nave soccorritrice, sfruttando il principio della giurisdizione dello stato di bandiera per ottenere il loro immediato trasferimento in Norvegia o in Germania, e l’introduzione del fantasioso concetto di “sbarco selettivo”, con l’annesso riferimento al “carico residuale”, come sono state chiamate le persone che in un primo momento non erano state considerate abbastanza “vulnerabili” per lo sbarco.

Sulla domanda di asilo a bordo delle navi la questione è spesso mal posta. È vero che il comandante è tenuto, anche sulla base delle Linee guida IMO a identificare le persone che ha a bordo e a raccogliere informazioni quali la nazionalità o anche, laddove richiesto dalle persone soccorse, la volontà di chiedere protezione. Al contrario non troviamo alcun obbligo in capo al comandante di chiedere ai naufraghi le loro intenzioni o trasmetterle allo stato di bandiera quando il soccorso non si è ancora concluso anche perché, in questa fase, riteniamo prevalgano le necessità SAR sulla determinazione dello status giuridico delle persone a bordo. Al contrario le direttive europee stabiliscono che sono gli stati, nel nostro caso l’Italia in quanto luogo di sbarco dei naufraghi, ad essere tenuti a fornire informazioni in tema di asilo e conseguenze dell’ingresso senza visto e a loro corrispondono precisi obblighi laddove le persone manifestino la loro volontà di chiedere asilo. Anche da un punto di vista pratico, fornire queste informazioni e garantire i diritti dei richiedenti asilo non sono attività che possono essere svolte a bordo di una nave di soccorso, da attori non statali.

Infine, per quanto riguarda il secondo aspetto abbiamo visto come chiunque abbia diritto ad essere soccorso, a prescindere dal proprio status giuridico e senza distinzioni di alcun tipo. Le condizioni di salute non costituiscono mai, nella corrente cornice di diritto interno e internazionale, una ragione di discriminazione nell’esercizio del diritto ad essere soccorsi (e quindi a sbarcare in un luogo sicuro). Peraltro, volendo utilizzare la lente della “vulnerabilità” non si può che affermare che questa sia una condizione che accomuna tutte le persone scampate a un naufragio e sopravvissute alla Libia. È per questo motivo che tutti i naufraghi sono potuti sbarcare a seguito dell’accertamento svolto dalle autorità sanitarie del porto di Catania.

Il governo si trova quindi in una posizione complessa dal punto di vista giuridico visto che tanto le pratiche messe in campo finora quanto le nuove norme prodotte soffrono della costante tensione con principi sovraordinati che certo non possono essere gratuitamente schiacciati per rispondere all’interesse degli stati al controllo della frontiera. Si tratta di una contraddizione che lascia aperti molti spazi di intervento anche giuridico per l’affermazione delle responsabilità degli stati per le violazioni commesse e per garantire il concreto esercizio della libertà di movimento.

EFFIMERA