L’agenzia stampa Interris ha intervistato la dottoressa Daniela de Robert ,componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, a proposito del rapporto dell’Autorità “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari”. Vi presentiamo una sintesi dell’intervista.
“L’altissimo numero dei suicidi non può non preoccupare e interrogare una Autorità di garanzia che ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, a cominciare dal diritto alla vita e alla dignità, pur con la consapevolezza che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di cause e di ragioni intimamente personali e non può essere ricondotta automaticamente e in via esclusiva alla condizione di detenzione in carcere.
Quali sono le principali criticità delle carceri italiane?
“Le criticità sono diverse. Dovendone sottolineare le principali, inizierei a evidenziare il senso di vuoto.
E’ il vuoto infatti a caratterizzare ancora troppe carceri italiane: la dimensione di un tempo che scorre inutilmente semplicemente sottratto alla vita che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento, e poi reinserimento costruttivo per i detenuti, come ci chiede la Costituzione”.
A cosa è dovuto questo vuoto ?
“Dalla mancanza di attività significative durante la reclusione. E’ un tempo sottratto alla vita che nulla dà e nulla restituisce né alla persona, né alla società.
Questo è un problema sociale che si è inoltre acuito a causa della pandemia durante il lockdown quando vennero interrotte tutte le attività e gli incontri con i familiari.
Un’altra criticità è la sensazione di abbandono e di rimanere segnato per sempre (come uno stigma) che percepisce chi vive dietro le sbarre.
Il carcere nel suo insieme è come se non appartenesse più alla comunità esterna.
Le persone che vivono nel carcere sono come ‘vuoti a perdere’”.
Cosa si evince analizzando il rapporto ?
“Il rapporto di quest’anno evidenzia innanzitutto un record negativo: negli ultimi 10 anni non ci sono mai stati così tanti suicidi. Sono 79 nei primi 11 mesi.
I dati più salienti riguardano la durata della pena: 49 persone si sono uccise nei primi mesi di detenzione; 5 di questi nei primi giorni; 9 addirittura nelle prime 24 ore.
Alcuni non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccise subito.
Quindi non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: ‘Da qui non riemergerò mai più’”.
In quale altro momento si registra il picco di suicidi?
“L’altro picco di suicidi si registra quando il detenuto sta per uscire a fine pena”.
Sembrerebbe un controsenso: il fine pena dovrebbe essere un momento di gioia…
“Dovrebbe. Ma non sempre è così, può trasformarsi in disperazione, nella paura di non farcela, di solitudine, di non trovare un’accoglienza all’uscita, di non trovare un lavoro per mantenersi, una casa, delle amicizie significative.
Cinque delle persone che si sono suicidate avevano una pena che finiva entro l’anno, mancavano pochi mesi. Trentanove avevano una pena inferiore ai tre anni.
A volte – spesso – l’esterno fa paura quasi e più dell’interno”.
Le persone con fragilità sociale o personale sono particolarmente vulnerabili ?
“Certamente sì. Il rapporto ha fatto emergere che 65 persone (pari all’82,28%) sulle 79 suicidatesi erano coinvolte in altri eventi critici, mentre altre 26 (ossia il 33%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di uno).
Inoltre, 23 persone (ossia per il 29% dei casi) erano state sottoposte alla misura della ‘grande sorveglianza’ e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Va osservato poi che 18 persone tra quelle che si sono tolte la vita risultavano senza fissa dimora e tutte di nazionalità straniera.
A proposito di quest’ultimo dato, si evidenzia che il numero delle persone senza fissa dimora che si sono tolte la vita risulta in netto aumento rispetto agli anni precedenti.
Sembrerebbe un paradosso perché – verrebbe da dire semplicisticamente – che in carcere un clochard ha almeno un tetto.
Ma in realtà vivere per strada è un fattore di fragilità che si somma alla vergogna di essere finiti in carcere. Inoltre, anche il carcere stesso rende più fragili le persone, specie se sono recluse da tanti anni. Una volta uscite, fanno molta fatica a riprendere il ritmo e possono sentirsi completamente tagliate fuori.
Sarebbe auspicabile un periodo di accompagnamento prima dell’uscita. Ci vuole tempo e un aiuto per riabituarsi alla vita libera in maniera costruttiva”.