I fatti di cronaca quotidiana ed il susseguirsi di notizie su scandali veri o presunti costituiscono da sempre armi di distrazione di massa per allontanare la individuazione delle responsabilità dei politici di governo che fanno valere la forza dei sondaggi d’opinione e della maggioranza parlamentare contro il rispetto delle leggi e delle Convenzioni internazionali. Attaccare l’avversario politico con l’attribuzione di “responsabilità collettive” da sanzionare sulle prime pagine dei giornali, prima che nelle aule dei tribunali, costituisce un espediente ormai fin troppo evidente di chi, dopo gli slogan elettorali non è capace, in tuti i campi, di individuare ed attuare vere soluzioni dei problemi sociali e umanitari che si stanno sommando sul fronte interno e a livello internazionale.
Le politiche migratorie, che non si possono ridurre al “controllo dei flussi”, rimangono al centro delle questioni irrisolte che i governi cercano di affrontare, moltiplicando gli attacchi contro le Organizzazioni non governative, espressione della società civile organizzata che non arretra di fronte a chi vorrebbe intensificare la costruzione dei muri alle frontiere terrestri e la politica degli accordi con paesi che non rispettano i diritti umani (esternalizzazione) per chiudere tutte le vie di fuga a mare. Perché di fuga si tratta, quando i migranti cercano di lasciare l’Egitto, la Libia e la Tunisia, senza che sia possibile distinguere, in acque internazionali tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo.
Quando si annega non ci sono differenze e le Convenzioni internazionali vietano qualsiasi discriminazione tra le persone che sono in pericolo in mare, non si tratta di “clandestini” ma di naufraghi da salvare e trasferire in un porto sicuro di sbarco, che nessun paese nordafricano, per ragioni diverse, è attualmente in grado di garantire. Come è confermato dai più recenti rapporti delle Nazioni Unite e delle principali agenzie umanitarie. Da ultimo un Rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, aggiornando precedenti documenti,e dopo precise denunce delle posizioni italiane sulla chiusura dei porti, ha fornito precise linee guida agli Stati costieri ed ai comandanti delle navi civili per l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro, che va garantita non solo sulla base delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, ma anche tenendo conto della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, nonché delle Direttive e dei Regolamenti europei al riguardo.
I diversi governi italiani hanno tuttavia cercato di aggirare la condanna subita dal nostro paese nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi Jamaa ed altri, relativo ad un respingimento collettivo effettuato da una motovedetta della Guardia di finanza, la Bovienzo, che il 6 maggio 2009,dopo avere intercettato i naufraghi in acque internazionali li riconduceva nel porto di Tripoli e li riconsegnava direttamente sulla banchina alle autorità libiche. Per evitare che arrivassero altri migranti in fuga dai lager libici, si sono forniti cospicui finanziamenti alle milizie di Tripoli ed alle milizie che le supportavano, talvolta anche con contributi alle autorità locali, nel tentativo di incrementare i centri di detenzione in quel paese e di rafforzare la sedicente Guardia costiera “libica”, alla quale si sono offerti non solo mezzi, ma anche formazione ed assistenza, e fino al 2020 anche coordinamento operativo da una nave militare italiana stabilmente ormeggiata nel porto militare di Abu Sitah a Tripoli (missione Nauras).
Lo stillicidio di vittime nel Mediterraneo e le torture visibili sui corpi di chi riesce ad arrivare in Europa, costringono ancora a ricercare i responsabili di quelli che sono stati definiti crimini contro l’umanità. Come si documenta in una recente denuncia alla Corte Penale internazionale sulle complicità di diversi politici europei ed italiani, con Frontex e con le autorità libiche, per le violenze inflitte ai migranti trattenuti nei centri di detenzione in Libia o intercettati in acque internazionali. “Soccorsi” che di fatto si traducono in sequestri di persona di naufraghi riportati a terra, e quindi riconsegnati a quelle stesse milizie dalle quali erano riuscire a sfuggire, pagando un prezzo sempre più elevato. In territori nei quali diventa impossibile distinguere tra milizie armate e bande criminali che contollano i trasferimenti verso i punti di imbarco e le partenze verso l’Europa.
A partire dal 2017 il ritiro della maggior parte degli assetti navali della missione Themis di Frontex, solo in parte sostituita dalle Operazioni Eunavfor Med (prima Sophia ed oggi Irini), contemporaneamente alla minore presenza operativa in acque internazionali della nostra Guardia costiera e delle navi militari italiane della missione Mare Sicuro, di “supporto alla Guardia costiera libica”, hanno accresciuto il carico delle operazioni “Search and Rescue”(SAR) svolte dalle navi umanitarie. A partire dal caso Iuventa, con un ruolo di continua disinformazione da parte delle forze di polizia e di Frontex, si sono moltiplicati così i tentativi di criminalizzazione che hanno come obiettivo l’eliminazione di qualsiasi testimone indipendente in acque internazionali chiamate zone SAR (libica o maltese)nelle quali vengono compiuti gravi illeciti e si ripetono casi di omissione di soccorso o di respingimento collettivo “delegato” o indiretto.
L’unico porto sicuro (place safety) verso cui condurre le persone soccorse al largo delle acque territoriali libiche è l’Italia, come stabilisce il Regolamento Europeo n.656 del 2014. Secondo l’Articolo 4 del Regolamento (Protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento) “Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento. In sede di esame della possibilità di uno sbarco in un paese terzo nell’ambito della pianificazione di un’operazione marittima, lo Stato membro ospitante, in coordinamento con gli Stati membri partecipanti e l’Agenzia, tiene conto della situazione generale di tale paese terzo”. Non si possono denunciare quindi soltanto le responsabilità di Frontex e del suo Consiglio di Amministrazione, ma occorre approfondire la ricerca delle responsabilità anche per la collaborazione offerta dall’agenzia agli Stati terzi, nelle operazioni di intercettazione in acque internazionali, Di questi respingimenti collettivi su delega sono direttamente responsabili gli Stati costieri ospitanti, dunque l’Italia ed il suo governo, e Malta, sia pur tenendo conto della ridotta estensione territoriale di questa isola-Stato, che da tempo hanno stretto accordi con le autorità libiche.
Con il Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti stipulato con il governo di Tripoli, neppure rappresentativo dell’intera Libia, il 2 febraio 2017, il governo italiano ha ripristinato il Protocollo operativo stipulato dal governo Prodi con la Libia di Gheddafi nel 2007. Nel 2018 veniva istituita una zona SAR “libica”e si fornivano numerose motovedette alla sedicente guardia costiera “libixa” per aumentare le capacità di contrasto di quella che veniva definita soltanto come “immigrazione illegale”. Malgrado fosse già chiara la distribuzione di precise responsabilità da parte delle autorità di governo italiane ed europee, come accertato da una sentenza di condanna del Tribunale permanente dei Popoli nel dicembre del 2017, si intensificavano gli attacchi giudiziari e contemporaneamente le minacce a mano armata dei guardiacoste libici contro le ONG impegnate in attività di soccorso, come si verificherà nel caso S.S Others versus Italy, attualmente all’esame della Corte europea dei diritti dell’Uomo a seguito di un intervento violento da parte di una motovedetta libica durante una operazione di soccorso condotta dalla ONG Sea watch.