Come scrive Laura Tussi a proposito del libro di Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente (Multimage, Firenze, 2021), «il libro fa suo un approccio di ricerca-azione nel senso che parte da una ricognizione dei più significativi luoghi della memoria e dei contesti del patrimonio monumentale del periodo jugoslavo […] e si interroga sul nesso tra pace, giustizia e cultura nel senso della trasformazione costruttiva del conflitto, nel superamento delle lacerazioni del dopoguerra e del ripristino di itinerari di comprensione e di convivenza, approfondendo in particolare la questione cruciale del nesso tra cultura e pace».
E, a proposito di tutte le guerre, dalla battaglia del Kosovo del 1389 contro gli Ottomani, alla seconda guerra mondiale, fino alla guerra intestina post-jugoslava degli anni Novanta, si chiede Enrico Peyretti:
«Cosa fa il tempo sulla guerra? Il tempo e la memoria trasfigurano, placano, assorbono, accettano? Avviene una catarsi, oppure il trauma sottopelle continua a corrodere? […] Una catarsi, sì. Finita la guerra, fuori da orrore, terrore, sangue, si vuole passare alla bellezza, alla festa, al piacere. […] È positivo che la tempesta della guerra si plachi nell’arte, anche la più semplice: è risanante, è l’espulsione di un veleno. Ma il trauma rimane. […] Ma guardiamo più indietro: quale memoria delle guerre? Un pesante fenomeno piantato negli occhi e nelle teste dei popoli, in quelle dei bambini a scuola, è la glorificazione della forza vincente: chi vince deve darsi ragione, per ripulirsi dal sangue, quasi confessa di doversi assolvere cambiando il delitto in merito. […] Cosa sono i monumenti? Memoria, dolore, trasmissione a chi viene, come i monumenti funebri? Oppure avviso, ammonizione, superbia, minaccia».
E Gianmarco Pisa cita, a proposito di questa ossimorica funzione dei luoghi della memoria collettiva, le parole del poeta Danilo Kiŝ: essi costituiscono “la cupa gioia dei ricordi” (da Danilo Kiŝ, Enciclopedia dei morti). E a me sovvengono due reliquiari molto vicini tra loro, al confine italo-slavo: l’ossario di Redipuglia, che ospita i resti dei caduti della Grande Guerra, e la foiba di Basovizza, nella quale partigiani di Tito nascosero i cadaveri di italiani trucidati in risposta alle pulizie etniche di Mussolini e Ante Paveliĉ. Dove si marcano frontiere finiscono per scoppiare guerre…
Un libro, dunque, che suscita questioni e apre scenari, un libro molto complesso e articolato, da centellinare e da studiare.
Ma partiamo dal titolo: Di terra e di pietra. Sono parole tratte da una poesia di Arthur Rimbaud, e questo ce la dice lunga sulla finissima sensibilità estetica dell’Autore.
Se ho fame, è soltanto
di terra e di pietre […]
Mangiate i ciottoli infranti,
le vecchie pietre di chiesa;
i sassi dei vecchi diluvi,
pani sparsi nelle valli grigie.
E poi il sottotitolo, esplicativo: Forme estetiche negli spazi del conflitto dalla Jugoslavia al presente. Quando si rievoca la guerra in Jugoslavia, a me, ma non credo solo a me, due immagini tornano prepotentemente in mente: il disastro del ponte di Mostar, medievale struttura elegantissima, pesantemente bombardato e crollato, e il concerto per solo violoncello tra le macerie della Biblioteca di Sarajevo, il quale, a sua volta, richiama una famosissima foto dell’ostinato pubblico che osserva e sceglie volumi tra gli scaffali superstiti e i detriti ammassati della biblioteca della Holland House di Londra nel 1940.
La cultura come invocazione di pace e dialogo o come veicolo di ideologia identitaria? È questo il nodo, è questa la matassa da dipanare, attraverso un minuzioso lavoro sul campo, una tessitura di incontri, una intermediazione durante e dopo i conflitti, cioè attraverso l’impegno degli operatori di pace.
Di questo e di molto altro parla il libro, che, va detto subito, è l’esito di uno studio profondissimo, che accompagna l’esperienza vissuta a lungo nei Balcani, e di cui è riprova la sterminata bibliografia e sitografia che si dipana nelle accuratissime note a piè di pagina, oltre che nei suggerimenti di lettura finali.
L’opera consta di diverse sezioni, si potrebbe definire un libro fatto di più libri.
Una prima parte, che è quella su cui mi soffermerò un po’ di più, potremmo dirla teorica: a partire dal Satyagraha di Gandhi e dall’operato di Danilo Dolci in Sicilia, si passano in rassegna le teorie e le pratiche dei percorsi di pace e della diplomazia dei popoli e si affronta la duplice valenza della costruzione della memoria collettiva, cui abbiamo già accennato.
Segue un percorso storico nell’area balcanica, che muove dagli insediamenti neolitici, attraverso la presenza celtica, le conquiste romana bizantina ottomana, per giungere all’epoca moderna, che vede la penisola spartita fra l’impero asburgico a nord e quello ottomano a sud, e concludere con i conflitti etnici del primo Novecento, che preludono alla Grande Guerra, l’occupazione nazi-fascista durante la Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza, la Repubblica Federale Socialista e la sua rovina dopo la morte di Tito.
Una terza parte traccia una puntualissima storia dell’arte balcanica del Novecento, descrivendo il passaggio dalla Secessione, ispirata a quella austriaca, e dall’Art Nouveau al realismo socialista degli Anni Cinquanta, che trapassa poi nel modernismo (Berlino, 1961) fino al concettualismo e alla retro-avanguardia. Qui un esperimento interessantissimo è quello della Neue Slowenische Kunst, un gruppo di pittori, grafici, musicisti, attori e registi teatrali, autori di installazioni, che riprendono esasperandoli e così svelandone tutto l’orrore, i clichés della propaganda identitaria e nazionalista di qualsiasi provenienza.
È in questo contesto che si inserisce il vasto e particolareggiato excursus sui memoriali, numerosissimi, che costellano tutti gli odierni Stati della ex-Jugoslavia, da quelli che rievocano i caduti della Grande Guerra, a quelli dedicati alla Resistenza e alla costruzione del Socialismo, nel nome della Libertà, Unità e Fratellanza dei popoli, fino a quelli neo-identitari che rispolverano gli eroi nazionali della lotta contro i Turchi a cavallo tra Medioevo e modernità.
C’è, infine, un’ultima parte, specialmente suggestiva ed emozionante, che costituisce un itinerario attraverso tutti i luoghi più fortemente simbolici di quest’area esemplare, in quanto crocevia di popoli e culture, affacciata su un Mediterraneo che vogliamo di pace.
Oserei chiamarla una guida turistica per pacifisti, se non fosse che lo scopo non è indurre a distrarsi, divertirsi, cioè a distogliere lo sguardo (come direbbe Arundhati Roy) davanti al dolore degli altri (per usare un’espressione di Susan Sontag), ma al contrario è quello di immergersi nelle emozioni, nelle tensioni, suscitate dalla memoria delle guerre, della sofferenza ingiustamente inferta e patita, della ribellione, per inventare una mossa spiazzante, altra dalle consuete reazioni di arroccamento tra avversari, che possa indurre a una conversione, a volgersi cioè dalla stessa parte, per creare un punto di vista alternativo ai vecchi pregiudizi, e superiore, che accomuni. Questo il compito degli outsiders, degli operatori di pace, in quanto estranei al conflitto e imparziali, quindi infaticabili promotori di inusitate prospettive di “pace con giustizia”.
Pisa ci racconta nei minimi dettagli l’urbanistica e i monumenti più significativi di ogni grande capitale: Lubiana (Slovenia), Zagabria (Croazia), Sarajevo (imprescindibile luogo di meticciato culturale e dunque di pace, in Bosnia Erzegovina), Belgrado (Serbia), Skopje (oggi frontiera preclusa ai migranti della rotta balcanica, in Macedonia), fino al multiforme e conteso Kosovo, diviso tra Serbi e Albanesi, e a Ŝutka, capitale romané.
Leggo da pag. 125: «Questo capitalismo monopolistico a forte polarizzazione istituzionale e a marcata disparità sociale porta inevitabilmente alla dinamica della controversia e all’esercizio della violenza, tende a ridurre gli spazi degli organismi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, esaspera la tendenza al militarismo, al conflitto armato e alla guerra».
L’alternativa è l’intermediazione di pace. Vediamo di capire come funziona.
La teoria e la pratica dell’interposizione nonviolenta nei conflitti cominciano da un atteggiamento che i filosofi definiscono “empatia”. Secondo Edmund Husserl e secondo la sua allieva Edith Stein (ebrea divenuta carmelitana e gasata ad Auschwitz con la sorella Rosa) non si tratta né di una emozione né di un sentimento, ma di un posizionamento cognitivo, di un’apertura ermeneutica nei confronti di tutto ciò che ci circonda, per comprenderne l’intima natura e, nel caso di persone, per coglierne le motivazioni e le intenzioni non dette, mettendosi nei loro panni o “nelle loro scarpe”, come più efficacemente dicono gli inglesi.
In effetti, i primi a scrivere di empatia furono gli scozzesi Adam Smith e David Hume, anche se la loro teoria è stata malamente tradotta in italiano in “morale della simpatia”. L’empatia, sostiene Husserl, apre allo scambio interculturale, a capire anche “altri mondi della vita”, a tenere viva la tensione “sempre di nuovo”. L’operatore di pace deve, dunque, ritrovare innanzi tutto questa empatia in se stesso e, di conseguenza, stimolare le parti opposte che interloquiscono a fare altrettanto.
Johan Galtung, principale ispiratore della ricerca della pace, propone una formula che identifica l’educazione alla pace:
pace = equità x empatia
trauma x conflitto
Se la memoria del trauma non elaborata, ma covata con rancore, suscita conflitto, il desiderio di equità destato dall’empatia indica la strada per superarlo. Il conflitto, se agito in modo nonviolento, è una variabile trasformativa, un’occasione di confronto tra differenze, che può far rintracciare comuni interessi e obiettivi comuni da perseguire insieme, ciascuno a suo modo.
In regioni che sono crocevia di popoli, come il Kosovo, il progetto è quello di passare dalla inter-etnicità (in qualche misura imposta dalle circostanze e praticata con difficoltà) alla trans-etnicità (bellissima parola che allude al movimento, al passaggio, al venirsi incontro reciproco, al mescolamento, al meticciato, allo scambio fruttuoso e creativo). Per giungervi, bisogna decostruire le etnicità antagoniste, non abolendo ma trascendendo le contraddizioni, sostituendo la terra di nessuno con lo spazio trans-etnico, grazie all’aiuto di parti terze, di facilitatori della comunicazione tesa a realizzare una democrazia interculturale.
Se questi sono i fondamenti teorici della ricerca della pace, la pratica è stata indicata per la prima volta dal Segretario Generale dell’ONU Boutros Ghali nella sua Agenda per la Pace del 1992, più tardi ripresa da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza su Giovani, Pace e Sicurezza del 2015.
La prospettiva è quella della “democrazia dei popoli” costruita dal basso, quella che Aldo Capitini chiamava “omnicrazia”. Se l’intervento militare dei Caschi Blu può imporre il cessate-il-fuoco, l’impegno dei Caschi Bianchi, dei giovani, delle ONG può modificare il sistema delle relazioni sociali e promuovere non solo la «pace negativa» (assenza di guerra) ma anche la «pace positiva» (armonia con empatia), ovvero “pace con giustizia” o ancora, come la definiva Tito, “unità e fratellanza tra i popoli”.
Boutros Ghali individua quattro momenti diversi di lavoro per la pace:
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La diplomazia preventiva, un lavoro condiviso che eviti l’escalation della tensione e l’esplosione dello scontro;
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Il peace making, la pacificazione tramite il raggiungimento di un accordo tra le parti in conflitto;
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Il peace keeping, il mantenimento della pace ossia l’interposizione durante il conflitto;
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Il peace building, la ricostruzione delle relazioni, il ripristino della convivenza a conflitto concluso.
Ai Caschi Bianchi e al Servizio Civile Italiano all’Estero tocca soprattutto il peace-keeping. Agli operatori di pace tutti i momenti e, oggi nei Balcani, soprattutto l’ultimo, cioè il culture-oriented peace building: la ricostruzione della pace attraverso la cultura dopo la guerra.
Le forze di interposizione devono proporre una giustizia transizionale e, per far ciò, devono:
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Essere percepite dalle popolazioni coinvolte come imparziali e legittimamente intervenute,
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Lavorare sulla memoria collettiva allo scopo di trascendere il passato,
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Coinvolgere i portatori del trauma del conflitto,
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Promuovere il rispetto per tutti i diritti umani (civili, politici, socioeconomici, ecologici e interculturali).
Galtung riconosce che la capacità di negoziare è un’abilità femminile, che consiste nel cedere insieme e ascoltarsi l’un l’altro. La cultura di pace è una cultura dell’ascolto. La ricerca-azione e l’educazione-intervento mirano a costruire una “immaginazione morale” che include anche i nemici, che abbraccia la complessità, senza arrestarsi alla polarità dualistica, che non teme la creatività capace di avventurarsi nell’ignoto.
È questo il compito delle Agenzie per la Democrazia Locale, delle Ambasciate di Pace, dei Corpi Civili di Pace e di tutti i volontari.
È quanto in questo libro viene narrato, a partire dall’esperienza diretta dell’Autore, scorrendo un vasto e multiforme itinerario di immagini relative ai luoghi della memoria, memoriali di guerre, certo, ma non solo.
Il concetto di luoghi della memoria fu introdotto da Pierre Nora nell’omonimo libro del 1984: un luogo fisico o mentale, un museo, un monumento, un sito rievocativo o simbolico, ma anche una ricorrenza, un mito, una personalità, e ancora le prassi giuridiche consuetudinarie, la musica e le danze. Si tratta di luoghi-istanze che consentono una metamorfosi nell’attribuzione di senso e contribuiscono a creare memoria collettiva e, tramite questa, identità (che può essere rigida ed escludente oppure fluida e costantemente in fieri).
Un ulteriore chiarimento su questa duplice possibilità della costruzione di un’identità di gruppo può venirci dal concetto di “morale di gruppo” e “religione di gruppo” di Henry Bergson e da La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper.
La memoria del passato può essere strumentalizzata per innescare la miccia dell’odio etnico, può addirittura tradursi in “tradizioni inventate” e “comunità immaginate”, oppure può promuovere una cultura della pace, attraverso la ricerca della verità (Satyagraha la chiamava Gandhi), della giustizia, l’adozione di misure riparative, e, come in Sudafrica e in Mozambico, la riconciliazione.