Nel mondo ci sono circa 10 milioni di apolidi (dati UNHCR) e si stima che tra i 3 ed i 5 milioni siano bambini. La parola apolide deriva dal greco “apolis, apolidos” e significa “senza città, senza patria”. Le persone apolidi non possiedono quindi alcuna cittadinanza e di conseguenza sono escluse dalla fruizione di numerosi diritti fondamentali. Vivere la condizione di apolidia significa non poter andare a scuola o finire il ciclo di studi, essere visitati da un medico solo in casi di emergenza, non avere un lavoro regolare, versare i contributi, aprire un conto in banca, comprare o affittare una casa, sposarsi e riconoscere i propri figli.
Secondo le stime fornite da organizzazioni della società civile gli apolidi in Italia sarebbero tra i 3.000 e 15mila. Ma solo qualche centinaio ha oggi ricevuto dallo Stato italiano lo status di “apolide”. Molti degli apolidi in Italia appartengono a quello che per antonomasia è il “popolo senza stato” ovvero i Rom. Questo video racconta in breve l’apolidia.
L’apolidia negli ultimi decenni è passata dall’essere semplicemente una “complessa anomalia giuridica” per diventare finalmente una questione riguardante i diritti umani e da trattare come tale attraverso precisi strumenti internazionali. L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione relativa allo status degli apolidi del 1954 attraverso la legge del 1° febbraio 1962 n. 306 e il 10 settembre 2015 il Parlamento italiano ha finalmente approvato in via definitiva la legge di adesione alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961. La legge italiana non stabilisce però una definizione di apolide, ma poiché la Convenzione del 1954 ha effetto diretto in Italia, si applica la definizione contenuta nella Convenzione.
Il sistema italiano prevede due possibilità per determinare l’apolidia: una procedura amministrativa e una giudiziaria. L’accesso alle procedure è un po’ limitato in quanto le domande devono essere scritte in italiano e non possono essere avviate d’ufficio. Per accedere alla procedura amministrativa, il richiedente deve possedere il permesso di soggiorno e il certificato di nascita. Per avviare la procedura giudiziaria, è necessario un avvocato. Per la procedura giudiziaria, l’onere probatorio è lo stesso della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, mentre nella procedura amministrativa è a carico del richiedente. Sono previste garanzie procedurali nella procedura giudiziaria, come l’assistenza legale con patrocinio a spese dello Stato e un’udienza davanti al Giudice, mentre nella procedura amministrativa non c’è assistenza legale e non c’è diritto a un colloquio. Anche la protezione durante la procedura è limitata in quanto la prassi di rilasciare permessi di soggiorno temporanei ai richiedenti è piuttosto difforme sul territorio. Le decisioni negative possono essere impugnate e coloro a cui è stato concesso lo status di apolide hanno diritto a un permesso di soggiorno, a un documento di viaggio, al lavoro, alla sicurezza sociale, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, nonché a un requisito di residenza ridotto ai fini della naturalizzazione.
Alcuni dati sulle persone residenti in Italia riconosciute come apolidi sono pubblici, ma la popolazione apolide non è stata mappata in modo completo e le cifre sui rifugiati apolidi e su coloro che sono posti in condizione di trattenimento a rischio di apolidi non sono regolarmente pubblicate. Ci sono poi lacune nelle salvaguardie contro la detenzione arbitraria degli apolidi, compresa la mancanza di un requisito per l’identificazione del Paese ove rinviare l’interessato prima della detenzione. Esistono garanzie previste dalla legge per prevenire l’apolidia, anche per i bambini a rischio di apolidia nati in Italia e per i bambini nati da italiani all’estero, ma ci sono problemi con l’attuazione pratica delle disposizioni e c‘è un rischio riconosciuto di apolidia tra le popolazioni rom in Italia.
Il Consiglio Italiano per i Rifugiati, un’organizzazione umanitaria indipendente costituitasi nel 1990 in Italia su iniziativa delle Nazioni Unite, è da alcuni anni il referente italiano per l’Index sull’apolidia: uno strumento comparativo che esamina la legislazione, le politiche e la prassi dei Paesi europei in materia di tutela degli apolidi e di prevenzione e riduzione dell’apolidia rispetto alle norme e alle buone pratiche internazionali, sviluppato e curato dalla Rete Europea per l’Apolidia – European Network on Statelessness (ENS). Attualmente sono 26 i Paesi di cui è possibile consultare il Country Profile, che per l’Italia riassume il quadro giuridico e la policy italiana, la sua conformità alle norme internazionali, le prassi sulla tutela degli apolidi e l’approccio in tema di prevenzione e riduzione dell’apolidia. Oltre alla Rete europea sull’apolidia, a livello nazionale il CIR fa parte anche del Tavolo Apolidia, costituito da numerose organizzazioni che operano nel settore e che si sono riunite con l’obiettivo di coordinare attività e proposte operative volte al miglioramento della protezione delle persone apolidi e alla risoluzione dei casi di apolidia in Italia. Il Tavolo Apolidia ha redatto un documento aggiornato a settembre 2021 che descrive il quadro attuale della situazione e formula delle proposte di intervento specifiche. Qui le raccomandazioni del Tavolo Apolidia in breve.
Per porre fine all’apolidia entro il 2024 otto anni fa l’UNHCR ha lanciato la campagna “I Belong” . Per aiutare gli apolidi sono attive numerose associazioni, a partire dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione ASGI e dall’UNIA, la prima organizzazione in Italia di apolidi per gli apolidi, nata dalla volontà di quattro giovani che hanno sperimentato in prima persona cosa significhi essere invisibile, che mira a migliorare le condizioni di vita di migliaia di persone che vivono in Italia senza la cittadinanza di nessuno stato o infine dall’Associazione 21 luglio Onlus, un’organizzazione non profit che supporta gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo il benessere delle bambine e dei bambini, alla quale si deve il Rapporto “Fantasmi Urbani” sulle persone rom provenienti dalla ex Jugoslavia che vivono nei campi.