Dal 6 al di 18 Novembre Sharm-el-sheik ospita la ventisettesima conferenza annuale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop27.
Nel precedente summit, la Cop26 di Glasgow, più di cento stati membri hanno adottato il patto per il clima di Glasgow, rinnovando il proprio impegno a fissare nuovi obiettivi per la riduzione delle emissioni sulla base dei limiti previsti dagli Accordi di Parigi.
Tuttavia, ad oggi, le decisioni e gli impegni presi nell’ambito delle conferenze internazionali continuano a posizionarsi ben al di sotto delle soglie di riduzione delle emissioni e delle attività climalteranti stabilite dagli Accordi.
Per contenere il riscaldamento globale entro la famosa soglia di 1,5° C le politiche nazionali e internazionali di azione sul clima, sulla tutela della biodiversità e sulla riduzione delle emissioni avrebbero dovuto partire da obiettivi ben più ambiziosi di quelli finora stabiliti.
Allo stato attuale, secondo l’UNEP, anche laddove gli impegni presi dalle nazioni venissero rispettati alla lettera, potremmo comunque assistere ad un innalzamento della temperatura media globale oltre la soglia dei 2,5° C.
In questo contesto la Cop27, ha lo scopo di rinnovare l’impegno degli stati a raggiungere nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni e concordare urgenti strategie di intervento, soffermandosi in particolare su quattro punti: la mitigazione (ovvero l’azione per mitigare il cambiamento climatico e arrestare il riscaldamento globale sotto la soglia dei 2° C), l’adattamento (ovvero implementare e diffondere risorse e strategie per far fronte agli eventi climatici estremi e ai danni derivanti dai cambiamenti climatici, con particolare attenzione alle comunità ed ai paesi più vulnerabili), la finanza (ovvero occuparsi della finanza climatica, mobilitare le risorse finanziarie necessarie per far fronte alle sfide del cambiamento climatico, e per implementare come da accordo il trasferimento da parte degli stati più abbienti di 100 miliardi di dollari ai paesi in via di sviluppo) e la collaborazione (sviluppare e facilitare la cooperazione nelle negoziazioni e la collaborazione per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile gli accordi di Parigi).
Nonostante la rilevanza dei punti cardine fissati per la Conferenza, le strategie e le proposte di intervento delineate negli ultimi anni dai summit sul clima non risultano sufficienti per rispondere alla drammaticità dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica a cui stiamo assistendo a livello globale.
Il tempo per l’azione sta scadendo e ancora non si riesce a scorgere l’ombra di un concreto cambiamento di passo.
In un anno in cui le compagnie di gas e petrolio hanno raggiunto record storici di profitti, in cui l’intero settore economico dei combustibili fossili si appresta a chiudere l’anno con un incasso di 4 mila miliardi di dollari, in cui abbiamo assistito a eventi climatici estremi, siccità e ondate di calore in tutto il mondo, è evidente che siamo ben lontani dal ridurre le emissioni e arrestare la distruzione ecologica.
L’ultimo rapporto rilasciato quest’anno dall’IPCC, riporta evidenze allarmanti sui futuri sviluppi del cambiamento climatico e delle sue conseguenze per la biosfera.
Nel report si afferma che se le emissioni di gas serra continueranno ad aumentare anche dopo il 2025, si assisterà ad un riscaldamento medio globale di circa 3,2° C entro il 2100.
Un innalzamento delle temperature di questa portata, avrebbe effetti devastanti sugli ecosistemi marini e terrestri e porterebbe a rischio di estinzione oltre il 30% delle specie viventi del pianeta.
Ma non occorre proiettarsi così lontano nel tempo per comprendere la portata degli effetti devastanti della crisi ecologica. Le conseguenze dell’azione umana sulla destabilizzazione dei cicli naturali e degli ecosistemi sono già evidenti. Il riscaldamento globale e la crisi climatica hanno già causato enormi perdite di biodiversità in ogni area del globo.
Le ricerche condotte dal panel dell’IPCC mostrano che i ghiacciai si stanno sciogliendo ad una velocità mai registrata dall’inizio delle prime misurazioni un secolo fa, che più della metà della popolazione mondiale sta sperimentando seri problemi di scarsità idrica e siccità, mentre sono aumentati i fenomeni di precipitazioni estreme su scala mondiale.
Le ondate di calore e l’aumento delle temperature massime a tutte le latitudini, l’inquinamento, la frammentazione degli habitat naturali e la deforestazione stanno accelerando tutti i processi di degradazione ecologica già in atto, comportando già da ora la riduzione di numerosissime specie locali e la destabilizzazione dei cicli naturali.
Se fino ad ora i cambiamenti climatici sembravano manifestarsi con più evidenza nelle zone a clima più estremo (fasce equatoriali e polari), l’ultimo decennio ha dimostrato come grandi sconvolgimenti stiano interessando anche le fasce temperate.
In Europa, è previsto un aumento significativo dei rischi derivanti dalle ondate di calore, dei rischi per la produzione agricola, per la scarsità delle risorse idriche e per la maggiore frequenza e intensità delle inondazioni e alluvioni.
In particolare, l’Europa mediterranea risulta l’area più a rischio per un elevato riscaldamento delle temperature massime e per la siccità, con un progressivo aumento dell’aridità dei terreni.
Con un innalzamento delle temperature medie di 2° C, i fenomeni di scarsità d’acqua interesserebbero il 54% delle popolazione dell’Europa meridionale.
In Italia, la situazione è sempre più drammatica: il 2022 è stato l’anno più caldo registrato negli ultimi duecento anni, con una temperatura media della superficie terrestre di 0,96 gradi superiore rispetto alla media dal 1990.
Nonostante vi siano stati importanti fenomeni di precipitazioni estreme, negli ultimi due anni le precipitazioni medie a livello nazionale sono calate sensibilmente. Nel 2021, ad esempio, la media delle precipitazioni in Italia è stata inferiore del 7% rispetto a quella del trentennio 1991-2020.
Quest’anno nel territorio italiano abbiamo assistito a fenomeni estremi quali trombe d’aria (in Veneto, Puglia, Trentino, Toscana), grandinate anomale, livelli massimi di giorni consecutivi senza pioggia, il Po in secca e l’acqua del mare che è entrata per oltre trenta km devastando raccolti e biodiversità, il disastro della Marmolada, l’alluvione nelle Marche.
Questo disastro ecologico che si manifesta ad un ritmo sempre più incalzante, richiede oggi di superare la retorica dei summit sul clima, per passare all’azione e innescare il cambio di paradigma necessario per preservare la biosfera e la vita sul nostro pianeta.
Per questo, è necessario partire dalla comprensione e dalla consapevolezza di alcuni punti fondamentali per innescare un reale processo di transizione ecologica e sociale:
- Il cambiamento climatico è sintomo del disastro ecologico
È ora di riconoscere che la crisi climatica globale è parte di un intricato insieme di crisi che includono la salute, i suoli, gli ecosistemi, la società e la biodiversità. È sintomo della più ampia crisi ecologica innescata da un sistema economico basato sulla massimizzazione dei profitti, la discriminazione e l’estrattivismo.
Il clima terrestre è determinato dal funzionamento di un’infinità di sistemi e cicli naturali che si sovrappongono e si intersecano.
Il cambiamento climatico non dipende esclusivamente dall’alterazione dei cicli del carbonio, ma dal superamento della maggior parte dei limiti del pianeta, con effetti su una molteplicità di cicli naturali quali il ciclo dell’azoto, dell’acqua, dell’aria e della biodiversità.
Per comprendere profondamente le strategie di adattamento più efficaci e per rallentare e sanare il caos climatico, è fondamentale capire in che modo stiamo alterando e squilibrando ogni singolo ciclo naturale.
Finora, il dibattito internazionale si è soffermato esclusivamente sul problema delle emissioni di anidride carbonica, come se fosse l’unico fattore responsabile del cambiamento climatico.
Se continuiamo a ridurre i discorsi sul clima ad un problema di riduzione di anidride carbonica e a sbandierare l’obiettivo dello “zero netto” delle emissioni ignorando le altre molteplici dimensioni e cause del collasso ecologico, il riscaldamento globale e il cambiamento climatico continueranno solo a peggiorare.
- Non possiamo parlare di cambiamento climatico senza risolvere il problema dell’agricoltura industriale e dei sistemi agroalimentari
Il modo in cui produciamo, consumiamo e distribuiamo il cibo ha un enorme impatto sulla salute del pianeta e degli ecosistemi, ed è in grado di alterare i cicli naturali e di conseguenza il clima stesso.
L’agricoltura industriale globalizzata, è una delle principali cause di distruzione e alterazione dei cicli naturali e della salute degli ecosistemi.
Attraverso il consumo di suolo, la deforestazione, l’utilizzo costante di sostanze chimiche nocive (quali pesticidi, diserbanti e fertilizzanti), le monocolture, la riduzione genetica delle varietà coltivate, gli OGM, l’inquinamento da plastica, la dipendenza dai combustibili fossili e le lunghe distanze di trasporto, l’agro-industria è uno dei settori maggiormente responsabili della crisi ecologica a livello mondiale.
Per via dell’effetto combinato di queste pratiche, il settore agro-alimentare è considerato responsabile del 44%-57% di tutte emissioni globali di gas serra e del 70%-90% della deforestazione a livello mondiale.
L’industria globale del cibo è considerata inoltre una delle prime cause di perdita di biodiversità, mettendo a rischio l’86% delle specie viventi, nonché del degrado e della sterilizzazione dei suoli. Un suolo morto, privo della molteplicità di microrganismi e insetti che lo rendono fertile e vivo, è un suolo che non può sostenere la vita e che è sempre più vulnerabile in caso di alluvioni o siccità.
Se non invertiamo rotta nei sistemi di produzione del cibo a livello globale, queste devastazioni continueranno a provocare effetti a catena sui nostri ecosistemi e la loro capacità di rispondere ai cambiamenti.
Per avere un agro-ecosistema in salute è necessario uno scambio continuo con il più ampio ecosistema naturale in cui si colloca e rigenerare i cicli naturali e la biodiversità a livello locale.
- Le narrazioni riduzioniste sono un pericolo per affrontare la crisi ecologica
Negli ultimi anni, si sono affermate narrazioni che riducono e ignorano la complessità della crisi ecologica proponendo finte soluzioni, basate esclusivamente sulla riduzione delle emissioni di CO2 o sul cambiamento delle abitudini individuali invece che intervenire sulla più larga crisi ecologica prodotta dall’attività industriale.
Un esempio lampante di queste narrazioni riduzioniste è quello della contrapposizione dicotomica tra piante e animali, allevamento e agricoltura. L’allevamento animale e gli animali stessi vengono oggi considerati come una causa primaria del cambiamento climatico, senza guardare alla specifica responsabilità del modello produttivo: non sono gli animali o l’allevamento tradizionale su piccola scala a devastare gli ecosistemi e produrre ingenti quantità di emissioni, ma gli allevamenti intensivi e industriali.
Oggi si sta affermando un nuovo settore economico, quello delle carni sintetiche prodotte in laboratorio, che è destinato a diventare un settore dai profitti vertiginosi, proprio sulla base di una narrazione di maggiore sostenibilità rispetto agli allevamenti animali.
Purtroppo l’industria delle carni sintetiche si basa proprio sull’agricoltura industriale e le monocolture intensive per ottenere le proprie materie prime e necessita di enormi quantità di energia, oltre a produrre cibo altamente raffinato e processato industrialmente.
Queste finte soluzioni rischiano di nascondere dietro una retorica ecologica, l’ennesima soluzione proveniente dall’agribusiness, attraverso meccanismi di greenwashing che ignorano il ruolo fondamentale delle sinergie tra piante, animali ed esseri umani all’interno di un agroecosistema.
In molte culture tradizionali, la pastorizia e l’allevamento su piccola scala si integrano con l’agricoltura, con la cura della biodiversità e la diversificazione delle attività agricole.
Mentre è innegabile che tutti i sistemi di produzione industriale e intensiva, che si tratti di piante o di animali, siano gravemente responsabili della crisi ecologica, l’agroecologia, l’allevamento e la pastorizia tradizionali di piccola scala non possono essere posti sullo stesso piano.
Per questo è importante non cadere nelle narrazioni riduzioniste che nascondono le vere responsabilità della distruzione ecologica, spostando l’attenzione dai reali intenti dell’industria mentre di fatto si cancellano i piccoli agricoltori e i contadini.
- Le soluzioni sono davanti ai nostri occhi
Le strategie per rigenerare e sanare i nostri ecosistemi sono nelle nostre mani e nel supporto che riusciamo a dare alle comunità locali del cibo.
La resilienza e l’adattamento ai cambiamenti climatici possono essere sviluppate a partire dalle comunità locali, promuovendo attivamente l’agroecologia e costruendo sistemi sociali e agroalimentari biodiversi, in grado di rispondere ai mutamenti e ai problemi degli ecosistemi locali.
Per questo è fondamentale lavorare sull’autodeterminazione e il rafforzamento delle collettività, ad esempio riprendendo il controllo delle comunità sulle sementi, la loro capacità di moltiplicarli e selezionarli, riportando i semi nelle mani dei contadini, affinché le colture si adattino progressivamente ai cambiamenti e sviluppino maggiore resistenza.
In conclusione è fondamentale che le politiche climatiche affrontino la questione della riduzione delle emissioni di gas serra, ma non possono non intervenire anche sull’insieme di attività nocive portate avanti dall’industria e dai sistemi agro-alimentari industriali.
Per fare questo, è necessario supportare le pratiche rigenerative portate avanti dalle comunità locali e l’agroecologia, in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.
La crisi ecologica e climatica non può essere affrontata dall’alto, con le stesse soluzioni tecnocratiche e riduzioniste che sono state causa del problema.
C’è bisogno di elaborare e promuovere nuove strategie di riparazione ecologica dal basso verso l’alto, a partire dalla dimensione locale.
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