La sua storia in Val di Susa la conoscono tutti, ma da quando gli è capitato di parlare dal palco della bellissima manifestazione per la pace che si è svolta a Roma il 5 novembre scorso, dinnanzi a quella Piazza San Giovanni sventolante di bandiere e gremita di persone arrivate da ogni parte d’Italia, eccola anche su You Tube che rimbalza sui social e diventa a poco a poco virale.
E’ la storia di Nicolas Marzolino, valsusino di Novalesa, attivissimo da anni come testimonial dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra per via dell’incidente di cui è stato protagonista un giorno di marzo del 2013. Aveva 15 anni, con due amici era intento a piantare patate nel campetto di famiglia in vista della Sagra della Patata, che per Novalesa ogni settembre è una festa importante, con premi generosi. “Io sognavo di comprarmi una moto”, racconta.
Improvvisamente si trovano con la zappa che cozza con qualcosa che non è un sasso, bensì “un oggetto rosso, strano, con delle protuberanze argentee, sembrava uno di quei lumini che si accendono sulle tombe dei defunti, però più voluminoso. Inevitabile prenderlo in mano per dissotterrarlo e in pochi secondi ecco che esplode. Io sanguinante, con la mano spappolata, finisco dentro un fosso, accecato. Accecato pure il mio amico Lorenzo Bernard che mi stava accanto. E’ andata meglio al terzo amico solo perché stava dietro di noi, se l’è cavata con qualche scheggia e pochi giorni dopo riusciva a superare l’esame di guida.
Ma per noi due, e per le nostre famiglie, fu l’inizio di un calvario. La prima persona ad arrivare è stato mio padre, immagina cosa può provare un padre nel vedere un figlio in quelle condizioni, immagina lo shock. Di corsa in macchina in ospedale giù a Torino, che non è proprio dietro casa. Degenza per venti giorni all’Oftalmico, con molti amici della Val Susa, in particolare il gruppo dei Cattolici per la vita della Valle, che si davano il cambio per pregare sotto la mia finestra. Altri che si avvicendavano alla cura dell’orto, o quant’altro i miei non potevano più seguire perché dovevano seguire solo me. Infinità di visite, consulti, controlli, un cambio di vita radicale, un trauma per tutti.”
Gli chiedo come si sente nel constatare questo risveglio di notorietà intorno alla sua storia, dopo la manifestazione del 5 novembre. Mi risponde che per lui le cose che contano sono la famiglia, suo padre, sua madre, la donna che ha sposato l’anno scorso: i suoi più convinti supporters, che lo stimolano ad andare ovunque lo chiamino, per dire quel che va detto, “perché se a tre ragazzi in un giorno di marzo di nove anni fa capita di saltare in aria a causa di un ordigno rimasto lì, inesploso, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, nel giardino dietro casa… significa che nella stessa situazione potrebbero trovarsi chissà quanti altri! Significa che non tutti sanno della quantità di ordigni inesplosi dove meno te l’aspetti, anche della Prima Guerra Mondiale! E significa soprattutto che pochi sono consapevoli della loro pericolosità, anche a distanza di anni!”
Una perdurante minaccia per la popolazione civile di qualsiasi conflitto, trascorso o ancora in corso – e sono decine le guerre ancora in corso in varie zone del pianeta, come ben sappiamo. Ciò che non sappiamo è fino a che punto la guerra può continuare a mietere vittime anche dopo anni e anni, come appunto racconta la vicenda di Nicolas Marzolino. Che però, fin da subito, ha trovato la forza di reagire a quella che avrebbe potuto essere solo una disgrazia.
“Neanche un anno dopo l’incidente sono entrato in contatto con l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra. Con il segretario generale che allora era l’Avv. Roberto Serra abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa. Sono partiti vari progetti: solo nell’arco dell’anno scorso abbiamo tenuto (o meglio: hanno tenuto) 7.000 eventi di sensibilizzazione nelle scuole! E sicuramente è servito a qualcosa perché il numero di ragazzini saltati per aria è sensibilmente calato. Ma continuano a esserci quelli che per le bombe hanno proprio la passione, quelli che le bombe si divertono a smontarle per capire come funzionano. Quest’estate in Veneto ne sono morti altri due.”
Nel frattempo ti sei sposato, ti sei dato allo sport con non poche soddisfazioni, praticamente continui a fare tutto quello che facevi prima e persino con più gusto…
“Lorenzo vede solo ombre e luci da una minima porzione dell’occhio sinistro, il che non gli ha impedito di collezionare tutti i record mondiali per non vedenti nel canottaggio, anche l’anno scorso era a Tokyo per una gara. Io ho una protesi sull’occhio sinistro e sono cieco dal destro, buio totale. Ma tutti e due, con il sostegno delle nostre famiglie, abbiamo deciso che impegnarci nello sport era il miglior modo di reagire. Entrambi con la passione per lo sci, abbiamo continuato a buttarci giù per le piste anche da ciechi, guidati da qualcuno in grado di vedere la pista anche per te: con un megafono girato sulla schiena collegato a un microfono dentro una specie di marsupio, lui dà dei comandi e tu segui le istruzioni. Ma basta un attimo per finire fuori pista, per cui dopo un bel po’ di scivoloni abbiamo smesso, solo ogni tanto ci concediamo qualche discesa. Lorenzo si è dato al canottaggio, io all’atletica leggera, entrambi a livello agonistico. E finite le superiori, mi sono messo a studiare come mai avevo fatto prima: mi sono trasferito a Perugia per un triennio in massoterapia e ora mi sto specializzando in osteopatia.”
Hai concentrato sul tatto, sulle mani, le abilità che hai perso con la vista…
“Forse non tutti sanno che la massoterapia, che ormai praticano in tanti, era nata proprio come disciplina, diciamo pure occupazione, riservata ai non vedenti, perché è vero che hai un’altra sensibilità nelle mani, come mi confermano i pazienti. Io oltretutto non ho più la mano destra, ma con dei bravi professori superi questo e altro: faccio tutto con la sinistra.”
E poi c’è la ‘mano finta’, che solo ogni tanto indossi: so che l’ha progettata un amico di Novalesa apposta per te. Insomma, un pezzo unico…
“Opera di Andrea Grandis, che è già al lavoro su un altro prototipo perché è un perfezionista. La buona notizia è che grazie al supporto e alle relazioni dell’ANVDG ci sono ottime probabilità che questa protesi in fase di sperimentazione possa essere adottata da un centro protesi di Amman in Giordania, dove non si contano i profughi siriani in condizioni anche peggiori delle mie – a costi eccezionalmente competitivi: solo € 1.500 invece di € 27.000, che sarebbe il costo di un’altra protesi in fase di sviluppo.”
E soprattutto c’è il tuo impegno come testimonial dell’ANVDG, che ti coinvolge parecchio…
“Prova a pensare: se un ordigno bellico della Seconda Guerra Mondiale è in grado di esplodere e magari uccidere anche dopo 80 anni (e solo l’anno scorso gli artificieri hanno disattivato 50.000 esplosivi sulla terra ferma e 20.000 in mare!), per quanti anni continueranno a essere una minaccia tutte queste ‘nuove’ armi lasciate sul terreno delle varie guerre in corso, oltre a quelle concluse – e non dimentichiamo che sono 84 i conflitti in corso oggi, oltre all’Ucraina. Quanti anni ci vorranno per bonificare i campi di grano in Ucraina, con il rischio che qualche ragazzino salti in aria prima? Quanti anni ci vorranno per l’Afghanistan?
Ho chiesto per curiosità a un artificiere e la risposta è stata che, pur con i mezzi a disposizione adesso, ci vorrebbero non meno di 1.200 anni solo per l’Afghanistan. Ci rendiamo conto? E non solo una simile impresa non si farà mai, ma bombe sempre più tecnologicamente efficienti, sempre più a lungo raggio, sempre meno selettive quanto agli obiettivi (militari o civili, non importa) continueranno a essere progettate, prodotte, vendute, utilizzate, nonostante gli accordi e i trattati sottoscritti da una quantità di Paesi. Perché qualsiasi accordo non potrà mai essere vincolante per tutti. Tanto per fare un esempio: dall’anno 2000 l’Italia ha smesso di produrre quelle mine anti-uomo che rappresentavano (a loro modo) un’eccellenza del Made in Italy e anche l’uso delle bombe a grappolo sarebbe proibito dal 2010 grazie a una convenzione internazionale… Però sono state utilizzate in Siria, come in Libia, e adesso anche in Ucraina. Bombe che non discriminano, bombe che distruggono tutto quel che si trovano davanti, bombe con gittate sempre più potenti e ad alto raggio.
Quando lo capiremo che il problema della guerra, di qualunque guerra, anche di quelle più lontane da noi, è la guerra stessa? Ed è un problema che ci riguarda tutti, non possiamo limitarci ad accusare il ‘peso’ della guerra solo per il caro-bollette. Se il conflitto russo-ucraino è servito a ricordarci che le guerre possono esplodere anche in aree molto vicine a noi, non possiamo continuare ad alimentare questo orrore mandando sempre più armi… Semmai dovremmo preoccuparci di cosa abbiamo già entro i nostri confini: non so quante testate nucleari parcheggiate nelle basi militari di Ghedi e Aviano, solo per fare un esempio… Ci ripetiamo che la pace è qualcosa che bisogna costruire, ma dobbiamo essere coscienti che tutto concorre alla propagazione sempre più tecnologicamente perfezionata della guerra, ed è questo che dobbiamo fermare. Perché l’orrore della guerra è che continuerà a uccidere, ferire, amputare, anche parecchio dopo la sua fine.”