Hanno sbagliato paese
Da trent’anni, quasi ogni anno, 30-40mila “diplomatici ambientali” si riuniscono in qualche città del mondo per decidere come salvare il clima della Terra dall’effetto serra. Un rito inutile perché inconcludente (e lo si sa già prima), ma molto costoso, sia in termini economici che di emissioni (viaggiano tutti in aereo). Quest’anno, giunto alla sua 27° edizione, quel rito è stato aggravato dal fatto di essersi svolto in Egitto, il Paese degli assassini di Giulio Regeni, dei carcerieri di Patrick Zaki e di altri 60mila prigionieri politici, ma anche un grande produttore di gas, merce oggi particolarmente ambita da tutte le economie del mondo.
Questo rendeva l’Egitto altamente inadatto a ospitare un convegno che si dovrebbe occupare della lotta ai combustibili fossili (è come andare a fare un pic-nic nella tana di un lupo), tanto più che al centro dell’attenzione della sessione di quest’anno c’era il tema loss&damage, perdite e danni, che riguarda soprattutto i Paesi più poveri e più danneggiati dai cambiamenti climatici, ma senza alcuna responsabilità per essi. Sarebbe stato giusto tenere quella riunione in un Paese dell’Africa subsahariana desertificata o in un atollo del Pacifico sommerso dall’innalzamento del mare. Ad ogni buon conto, la prossima COP si terrà negli Emirati Arabi, uno Stato che vive solo di gas e petrolio. Quasi uno sberleffo. Dalla padella nella brace.
Il convitato di pietra: la democrazia
Niente di strano, quindi, che in questi convegni periodici, denominati COP (Conference of Parties), di fossili non si parli quasi o li si nomini appena, tranne negli incontri bilaterali fuori programma. E qui nessuno, a partire dalla nostra premier, si è trattenuto dal nascondere la sua cupidigia nei confronti del ricco giacimento di gas Zohr che fa del dittatore dell’Egitto Al-Sisi una delle persone più corteggiate del mondo. E mentre non solo l’Italia, nella persona del suo premier, ma tutta l’Europa, passavano disinvoltamente sopra il cadavere di Giulio Regeni – “acqua passata”… – gli Usa approfittavano dell’occasione per riabilitare il principe assassino Mohammed bin Salman. Niente di cui stupirsi: la loro, e nostra, democrazia è questa, la stessa che vuole condannare a vita Julian Assange, reo di aver rivelato alcuni dei tanti delitti perpetrati dall’esercito degli Stati Uniti. Gas e petrolio passano davanti a tutto, anche là dove in linea di principio ci si dovrebbe riunire per toglierli dalla scena.
Le COP, festival dei lobbisti (del petrolio)
Ma il business non finisce lì. Al-Sisi ne ha approfittato per moltiplicare per dieci il prezzo degli alberghi dove alloggiare, a loro spese, quella folla di diplomatici, con la conseguenza che la maggior parte dei Paesi più poveri ha dovuto ridurre all’osso i propri rappresentanti, mentre i lobbisti del petrolio, del gas e del carbone, lautamente stipendiati e con il rimborso spese a piè di lista, erano più numerosi dei rappresentanti dei Paesi poveri. Anche per questo Greta e gli esponenti del movimento Fridays for Future si sono rifiutati di andarci. Erano assenti anche la Cina e l’India, tra i maggiori “emettitori” mondiali, ma ormai convinte dell’inutilità di quegli incontri, che finiscono per lo più per metterle sotto accusa per coprire le responsabilità storiche – cioè cumulative, in termini di emissioni – dei paesi industrialmente più sviluppati, sempre pronti a dare lezioni agli altri e mai a se stessi.
Infatti, i risultati di COP27 sono stati dichiarati da tutti “deludenti”, sinonimo di fallimentari: non sono nemmeno stati confermati gli impegni volontari assunti l’anno scorso alla COP di Glasgow dai diversi Paesi, se non ribadendo la volontà di mantenere la temperatura media terrestre entro +1,5°C rispetto al periodo preindustriale, ma senza spiegare come.
Pagare i danni?
Unico risultato positivo, secondo qualche commentatore, l’istituzione di un fondo Loss&damage destinato a risarcire dei danni subiti i Paesi maggiormente colpiti dalla crisi climatica. Risultato puramente “simbolico”, hanno detto tutti. Intanto, perché non ne sono state fissate né la consistenza né l’eventuale ripartizione, sia della possibile origine – tra i donatori – che della relativa destinazione, i beneficiari: quali Paesi? E quali entità? I governi e le loro cleptocrazie, o le comunità territoriali? Lo si farà alla prossima COP, quella degli Emirati, a bagno nel loro petrolio…
Ma tanto “simbolico”, aggiungiamo noi, da configurarsi come una vera e propria truffa. A questo livello di elaborazione quell’impegno ricorda da vicino lo slogan con cui i nemici degli immigrati ritengono di potersela cavare: “Aiutiamoli a casa loro”. Sì, ma come? E quanto “aiuto” occorre fornire, e a chi, per rendere meno impellente il bisogno di abbandonare un Paese? E visti i precedenti, non sarebbe meglio smettere di saccheggiare quei Paesi prima di pensare ad “aiutarli”?
E venendo a noi, a quanto ammontano i danni della crisi climatica? C’è qualcuno che li sa calcolare? Non i danni di un singolo evento estremo – un’alluvione, un tornado, un periodo di siccità, la scomparsa di un fiume non più alimentato da un ghiacciaio, la perdita di un raccolto, ecc. Questi danni li si calcola, male, ma lo si fa. Ma le perdite e i danni della crisi climatica vanno, sia per il singolo Paese che per il mondo intero, molto al di là di quelli riconducibili a un singolo evento o alla somma di tanti singoli eventi. E nessuno li vorrà mai ripagare, né d’altronde sarebbe in grado di farlo. E chi, anche pagando, potrà mai fare arretrare il livello del mare, ricostituire un ghiacciaio, far piovere sulle aree desertificate, restituire la vita alle specie estinte?
Un piano planetario per un danno planetario
Ovvio che il peso maggiore di questo disastro ricade sui Paesi più poveri e più esposti alle conseguenze della crisi climatica, ma ormai essa riguarda tutto il mondo e tutti i Paesi, ancorché in misura diversa e si può affrontare solo con un piano che riguardi contestualmente tutto il mondo. Ovvio che un piano del genere non sarebbe facile da far passare; di lì, dalle COP, di buono non passa niente. Ma intanto nessun governo si è mai fatto carico anche solo di concepirlo e di proporlo, con la radicalità che impone per essere all’altezza della crisi ormai in pieno corso.
Ci vorrebbero le misure estreme di una vera conversione ecologica:
- Blocco di tutti i combustibili fossili, lasciandoli sottoterra, cominciando oggi, non domani.
- Concentrazione di tutti gli investimenti sulle rinnovabili, non sul gas, sui tubi, sulle trivelle, sulle navi-bomba.
- Trasporto solo più pubblico e intanto blocco degli aerei privati, dei panfili e delle crociere, dei Suv e delle auto di lusso.
- Blocco degli allevamenti intensivi (e conseguente cambio di dieta per tutti coloro che non possono fare a meno di una bistecca al giorno)
- restituzione del suolo a un’agricoltura biologica di prossimità
- riforestazione del pianeta piantando 1000 miliardi di alberi per riassorbire almeno in parte i gas di serra emessi negli ultimi due secoli: vuol dire 120 alberi, 4 all’anno, per ognuno degli attuali abitanti della Terra, per trent’anni. Si può fare: lo spazio per farlo, è stato calcolato, c’è.
Solo presentando un piano di questo genere avrebbe senso convocare un’altra COP. Altrimenti meglio chiudere con questa farsa e lasciare alle iniziative di base e alla loro replicabilità il compito di sviluppare soprattutto le attività di adattamento a un clima destinato a peggiorare in modo drammatico e che proprio per questo richiederà l’impegno diretto di tutti. Un impegno che gli attuali governi non saprebbero mai nemmeno concepire.